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DEL

PARADISO

CANTO I.

ARGOMENTO

Tratta il nostro Poeta in questo primo canto, come egli ascese verso il primo Cielo ; ed essendogli nati alcuni dubbi, essi gli furono da Beatrice dichiarati.

La gloria di colui, che tutto muove,

Per l'universo penetra, e risplende
In una parte più, e meno altrove.

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Nel Ciel, che più della sua luce prende.
Fu' io, e vidi cose, che ridire

Nè 2 sa, nè può qual di lassù discende;
Perchè appressando se 3 al suo disire,

1 Nell'Empireo, dove Dio ch'è luce, si comunica incomparabilmente più che altrove, dandosi a vedere a faccia a faccia ai Beati comprensori.

2 Intende di S. Paolo che sceso dal terzo cielo disse di se stesso: quoniam raptus est in paradisum et audivit arcana verba, quae non licet homini loqui. 2. Cor. 12.

3 Al suo oggetto il più desiderabile, alla prima verità, al suo fine, a Dio.

Nostro intelletto si profonda tanto,
Che 4 retro la memoria non può ire.
Veramente quant' io del regno santo
Nella mia mente potei far tesoro,
Sarà ora materia del mio canto.
O buono Apollo, all' ultimo lavoro
Fammi del tuo valor sì fatto vaso,

4 Tal che poi la persona non può rammemorarsene; forse perchè elevato da Dio l'intelletto ad un'altissima contemplazione, non può la memoria di sua natura e senza nuova grazia speciale ritenere quelle immagini soprannaturali. Certo è che S. Paolo parlando del com'egli era stato rapito disse, sive in corpore, sive extra corpus nescio e ciò si legge ancora di altri contemplativi che riscossi da quella astrazione non potevano esprimere quelle estatiche affezioni, e ciò per difetto di specie memorative idonee. Per altro, quanto il conoscere è più chiaro e più vivace, tanto più idoneo, ceteris paribus, a far si che la memoria rimanga meglio stampata delle specie conoscitive, massime se quel conoscere è soprannaturale: bensì è cosa connaturale che per la moltiplicità e ammirabilità degli oggetti veduti dall' intelletto quasi in un baleno se ne faccia come una confusione di specie nella memoria, da non potersene poi ricordare altro che così in generale : 0 le gran cose che ho veduto! Questo più tosto pare il senso di Dante che pensa e parla alla poetica, quasi immaginandosi l'intelletto e la memoria come due nuotatori d'inegual valore, talchè gettatisi in un pelago sott'acqua, il più debole non possa teuer dietro al più valente che via via già va accostandosi al fondo.

non

Come 5 dimanda dar l'amato alloro.
Insino a qui l'un giogo di Parnaso
Assai mi fu: ma or con
6 amendue

M'è uopo entrar nell' 7 aringo rimaso.
Entra nel petto mio, 8 e spira tue,
Si come quando Marsia traesti
Della vagina delle membra sue.
O divina virtù, sì mi ti presti
Tanto, che l'ombra del beato regno
Segnata nel mio capo io manifesti.
Venir vedrámi al 9 tuo diletto legno,
E coronarmi allor di quelle foglie,
Che la materia e tu mi farai degno.
Si rade volte, Padre, se ne coglie,

5 Quanto richiede l'alloro da me amato, o come vuole l'alloro da te amato, che tu mi dia per ornarmene la fronte: tocca qui la nota favola di Dafne ninfa amata da Apollo trasformata in alloro; Ovidio lib. 1. Trasfor.

6 Forse il Poeta per i due gioghi intende la filosofia e teologia.

7 Aringo spiegano pulpito da aringare, come quando si fa pubblica diceria in ringhiera: qui vale difficile impresa, e la metafora è presa dal significato che ha tal voce di giostra, o campo da giostrare.

9 E spira tu stesso dentro di me, e per mezzo dei miei organi tal suono, quale formasti quando venisti in contesa con Marsia suonatore presentuoso, e vintolo le scorticasti vivo e lo traesti fuori del fodero delle membra, cioè della pelle. Ovid. lib. 6. Trasf.

9 Alla pianta dell'alloro a te si caro.

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