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23. Richiesto il paralitico da' Giudei chi era stato colui che lo avea risanato, risponde: « lo non lo conosco ». Perchè il Signore, appena operato il miracolo, si era subito sottratto dalla turba degli infermi che ingombravano la piscina: Nesciebat quis esset; Jesus autem declinaverat a turba constituta in loco (Joan. 13). Con ciò ha voluto insegnarci il Signore, dice l'Emisseno, che fra la turba degli infermi dell'anima, figurati in questi infermi del corpo, fra Ja turba de' peccatori, nel consorzio de' malvagi e degli empii, non si può l'uomo elevare alla cognizione di Dio. Egli è dappertutto il nostro Dio; ma come accadde al paralitico, non si può veder questo Dio, gustarlo, unirsi veramente a lui, fuorchè nel suo tempio: Ubique est, et non cognoscitur in turba, sed in templo ; ut nos e vitiorum turba discedere doceat (Exposit.) E nel tempio appunto, poco dopo, Gesù Cristo ritrova il paralitico da sè guarito: Postea invenit eum Jesus in templo. Giacchè, notate, disse S. Gian Crisostomo, il bell' esempio di riconoscente e religiosa pietà che ci dà quest'uomo dabbene: ricuperata la sanità, non ritorna già ai suoi vizii, non si abbandona al dissipamento, al piacere, non va oziando per le strade e per le piazze; ma va dritto a ringraziare Iddio nel suo tempio della grazia ricevuta: Magnum profecto reverentiae et pietatis signum! Non erat in forum, non in porticus concessit; non voluptati, non otio indulsit ; sed in templo versatur (Homil. 37 in Joan.) Ma Gesù che ritrova il paralitico nel tempio è Gesù che gli si scuopre, gli si rivela, gli si manifesta: sicchè nel tempio il paralitico riconosce Gesù Cristo per vero Dio e vero Salvatore. Ed eccolo perciò, senza esitare un istante, volare a' Giudei e dir loro sapete? colui che mi ha guarito è Gesù: Abiit ille homo et nuntiavit Judaeis quia Jesus est qui fecit eum sanum (Joan. 15).

Oh bel tratto di riconoscenza e di amore! dice il Fuldense; conosciuto appena Gesù Cristo, non sa più contenersi, sente in sè un bisogno imperioso di andarlo a tutti predicando: Noto Jesu, non est piger in annuntiando (Gloss.) Notate ancora, dice S. Gaudenzio, quanto son belle queste parole: « Gesù è colui che mi ha sanato ». Come ebreo di nazione e di linguaggio, sapeva che il nome di Gesù significa Salvatore. Fu dunque come se avesse detto: il Salvatore mi ha salvato. Io ho avuto la salute da colui che è la SALUTE personifi cata, che della salute ha la virtù, come ne ha il nome: Utpote hebraeus, sciebal nomen Jesu ex sanitatis virtute descendere. Ille, inquit, me fecit sanum, cujus nomen Salus est (loc. cit.) Con questa sua predica però, volle il paralitico non solo glorificare Gesù Cristo, ma ancora, dice S. Cirillo, rendersi utile ai Giudei: additando loro in Gesù Cristo il vero medico celeste delle anime non meno che dei corpi, ed esortandoli a profittarne: Ut non ignoraret medicum, si quis eorum etiam curari desideraret (loc. cit.)

24. Ma oh scellerata ostinazion de'Giudei! ripiglia il Fuldense. Mentre questo loro fratello annunzia loro in Gesù Cristo il Salvatore, essi non pensano che a calunniarlo, a perseguitarlo come nemico: Iste nunciat salutem, ut sequantur; sed illi, e contra, persequuntur (Gloss. Inter.) Bello spettacolo frattanto, di vedere questo sanato che, portando sulle spalle il suo letticciuolo in segno del miracolo ricevuto, superiore al timore di essere perseguitato da' Giudei, non curando la loro invidia e la loro rabbia, gira per Gerosolima, predicando la potenza e la gloria di Gesù Cristo, dicendo a quanti incontra, cel più vivo trasporto di riconoscenza e di gioia: « Ah! io era paralitico da 38 anni; e Gesù in un istante mi ha risanato: Jesus est qui fecit eum sanum ». Così più tardi S. Paolo, per mezzo di un miracolo ancor più grande, riuscitato esso pure dallo stesso Signore alla grazia, col corpo ridotto alla perfetta servi tù dello spirito: Castigo corpus meum et in servitutem redigo, portando sulla

sua carne le stimmate della passione e della croce di Gesù Cristo: Ego autem stigmata Domini Jesu in corpore meo porto, ne andava predicando le glorie e le grandezze pel mondo; ripetendo a tutti: La grazia di Gesù Cristo mi ha guarito; io sono un miracolo vivente della sua potenza e del suo amore: Gratia Dei sum id quod sum! Beati noi pure, se in simil guisa, portando sempre, come prescrive lo stesso S. Paolo, la mortificazione di Gesù Cristo nel nostro corpo, ricopiandone in noi stessi e nelle nostre virtuose azioni la vita, Semper mortificationem Jesu in corpore nostro circumferentes, ut et vita Jesu manifestetur in corporibus nostris, superiori alle dicerie del mondo ed alla tirannia. del rispetto umano, saremo premurosi, zelanti di parlare di Gesù Cristo, di predicarlo, di raccomandarlo, di farlo conoscere ed amare anche più colle nostre opere che colle nostre parole! Noi ci assicureremo la vita eterna: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt (Eccli. XXIV).

PARTE SECONDA

25. Quando il Salvatore incontrò nel tempio il paralitico che avea risanato, gli disse queste gravi e terribili parole: « Vedi che ormai sei sano; bada bene però di non peccare mai più, affinchè per avventura non ti avvenga di peggio: Ecce sanus factus es; jam noli peccare, ne deterius tibi aliquid contingat » (Joan. 14). Or queste poche parole racchiudono due importanti lezioni: esse da prima, dice il Beda, chiaramente ci indicano che la lunga infermità del paralitico era stata una conseguenza ed un gastigo de' suoi peccati: Quibus verbis aperte monstratur quia propter peccala languebat (Comm. in Joan.) Poichè adunque non potea ricuperare la sanità del corpo senza detestare i vizii dell'anima, così il Signore gli toccò il cuore colla sua grazia, come fece più tardi colla Maddalena; lo indusse secretamente a pentirsi ; e mentre ne risanò esteriormente il corpo dalla paralisi, ne purificò interiormente l'anima dai peccati: Nec nisi, peccatis dimissis, poterat sanari. Sed qui foris ab infirmitate, etiam intus a scelere sanavit (ibid.) Ma come mai? Dunque per i peccati avvengono tutte le malattie? « Tutte non già, risponde il Crisostomo, ma il maggior numero »: Quid ergo? Omnes morbi propter peccala? Non omnes; sed plerique (Homil. 37 in Joan.)

Da ciò impariamo adunque, siegue a dire lo stesso santo Dottore, che se è vero, come è verissimo, che Dio spesso manda le infermità corporali o per motivo di umiltà, siccome a S. Paolo; o per esercizio di pazienza e di virtù, siccome a Giobbe; o per correzione, come ad Ezechia; o per la manifestazione della sua gloria, come al cieco nato; il più delle volte però è per gastigo del peccato: Admonemur quod ex peccatis morbi generantur (loc. cit.) Impercioc chè qual vi ha disordine più comune, dice pure S. Gian Crisostomo, di quello onde, appena ci sentiamo leggermente indisposti nel corpo, subito ricorriamo a' medici ed alle medicine, mentre che, al contrario, avendo l'anima mortalmente inferma per lo peccato, non ne risentiamo alcun rammarico, non ce ne diamo alcun pensiero? Cum graviter aegrotante anima nullo dolore afficiamur, parvo corporis morbo summa diligentia medicinam requirimus (ibid.) Che fa però tante volte Iddio? In pena del peccato dell'anima, colpisce, flagella colla malattia anche il corpo: affinchè la malattia del corpo ci richiami a riflettere sulle malattie e sulle piaghe dell' anima, ed a cercarne il rimedio e la guarigione; facendo così servire il supplicio della nostra carne alla salute del nostro spirito: Ideo Deus, ob animi peccatum, corpus flagellal; ut, deterioris partis supplicio, melius ad quaerendum remedium convertamur

Scuola de' Miracoli

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(ibid.) Quello che è certo adunque si è che non cadiamo noi infermi, dice il Beda, se non per una particolare economia di providenza, sempre utile a noi, spesso nascosta, non mai ingiusta: Novit Dominus pro quo quemlibet jubeat infirmari, saepe occulto homini judicio, sed nunquam injusto (loc. cit.) Que! che è certo si è ancora che il servire Dio, l'adempirne le leggi, siccome è utile all'anima, è vantaggioso ancora al corpo; e la condotta cristiana, buona a mantenere in noi la grazia, è buona ancora a mantenere in noi la sani. tà, a prolungare la vita: Qui abstinens est adjiciet vitam (Eccli. XVII).

26. Ma le stesse parole: « Bada bene di non tornare a peccare, perchè ti potrà accadere di peggio », contengono un secondo avvertimento ancora più grave. Imperciocchè quale è e qual può esser mai questo peggio di cui il Signore minaccia il sanato, se torna a peccare? un peccatore può forse incontrare in questo mondo peggior pena de' suoi peccati di quella di passare circa quarant'anni, cioè quasi tutta la vita, nello squallore, nella miseria, nel cruccio di una dolorosissima infermità? No certamente. Ma se non può essere più severamente punito in questo mondo, lo può esser nell' altro. Ed appunto, dice S. Gian Crisostomo, questa punizione dell' altra vita, in paragon della quale quarant'anni di pene e tutte le punizioni possibili della vita presente non sono che un nulla; questa punizione delle punizioni, questo gastigo de gastighi, questo tormento de' tormenti, in persona del paralitico, intese minacciare il Signore al peccatore recidivo, ostinato, che non aspetta che a finire di vivere per finir di peccare; ed ha voluto confermarci la funesta e terribile verità, che il supplicio dell'altra vita è gravissimo ed eterno: Admonemur inde quod verum est, apud Gehennam maximum atque perpetuum esse supplicium (Homil. 37 in Joan.)

Or se così è, siegue a dire lo stesso dottissimo Padre, se così è, venite avanti, o voi che motteggiate sopra il supplizio dell'altra vita, che credete di spiritosamente ragionare, mentre non fate che stolidamente bestemmiare quando dite: « E che giustizia è questa per parte di Dio, il punirmi, pel peccato di un istante, con una eternità di tormenti? Ubi sunt qui dicunt : Brevi spalio hominem interfeci, adulterium admisi; et ob admissum brevi tempore peccatum perpetuas poenas daturus sum? (ibid.) Eccovi, nella storia odierna, una manifesta confutazione de' vostri sofismi. Forse che il paralitico avea per trentotto anni peccato, poichè era stato per trentotto anni punito? No, no certamente. Aveva egli pur commessi peccati di pochi istanti. Eppure anche in questa vita ne ha sofferto sì lungo gastigo: Ecce hic non tot annis peccavit quot poenas dedit. Brevi peccatum patratur, morbi autem tormenta diuturna sunt (ibid.) Comprendete adunque da ciò che, al giudizio di Dio, non si calcola il tempo che spese l'uomo a commettere, a gustare il peccato, ma l'animo disordinato e perverso con cui lo commise: Non enim tempora peccati, sed peccantium animus judicatur (ibid.)

Ma che dico io mai, al giudizio di Dio? e non si procede anche allo stesso modo al giudizio degli uomini? L'omicidio si commette in un istante: eppure la giustizia umana condanna l'uomo che se ne è renduto colpevole a pena eterna; giacchè col bando perpetuo, colla perpetua prigione, colla stessa morte, la giustizia condanna per sempre, condanna irrevocabilmente il reo; ed in quanto da sè dipende, per sempre lo priva del consorzio de'cittadini e del. l'umana società.

27. Ma no, ripiglia S. Gregorio, che non è altrimenti vero che il peccato sia l'affare di un momento; l'azione del peccato è momentanea, ma l'intenzione di peccare è eterna. E qual vi ha tra' peccatori che nel fondo del suo

cuore non desidererebbe di vivere sempre per poter sempre peccare? Vellent sine fine vivere, ut possent sine fine peccare. ES. Agostino aveva pur detto: Se i peccatori non peccan sempre, non è la volontà che lor manca, ma i mezzi, ma le forze, ma il tempo, ma la vita; e se dal peccar si ristanno, non chè essi il peccato abbandonino, ma perchè il peccato prima li ha abbandonati: Dimiserunt te peccata tua, non tu illa.Or qual sentenza più giusta, ripiglia S. Gregorio, di quella che condanna a penar sempre chi volle sempre peccare? Ideo sine fine poenas luent, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi.

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28. Sebbene che parliamo noi ancora di una volontà passata, quando nell'inferno la volontà di peccare è, nel peccare, sempre superstite, sempre presente? Vi è una differenza immensa tra l'odiare il peccato ed il dolersene a salute. Per odiare il peccato, basta spesso la sua stessa mostruosità; sempre poi basta la severità del gastigo. Ma per dolersene salutarmente, ci vuole la grazia che lo faccia detestare come offesa di Dio; e questa grazia non penetra negli abissi infernali: ci vuole un principio di amore di Dio; e questo amore, che forma i penitenti, è impossibile all'uomo separato, nell' altro mondo, da Dio. Non già, dice S. Ireneo, che Dio da sè arbitrariamente lo collochi in questa situazione funesta di non poter più partecipare alla sua grazia ed al suo amore; ma perchè l'uomo che pecca non fa che apostatare, separarsi volontariamente da Dio, mettersi liberamente fuori della società di Dio. Or se in tale stato ei muore, vi riman sempre; mancandogli i mezzi di riconciliazione e di perdono, che solo in questa vita, solo nella Chiesa o per la Chiesa si ritrovano. Resta adunque in quello stato di perpetua apostasia da Dio in cui si è da sè stesso collocato, e che si ha scelto liberamente esso stesso: Deus non a semetipso eos principaliter punit, sed persequitur eos poena; el eam separationem inducit quae electa est ab eis: in quella guisa appunto, siegue a dire questo dottissimo Padre, onde, se un uomo si cava da sè medesimo gli occhi in pien meriggio, riman cieco per sempre: non già perchè la luce lo accechi, ma perchè si è da sè stesso posto nella impossibilità di più godere del beneficio della luce: Quemadmodum qui in immenso lumine semetipsos excaecaverunt, semper privati sunt jucunditate luminis; non quod lumen poenam eis inferat caecitatis, sed quod caecitas inducat in eos calamitatem. Quindi l'orribile ma certo mistero onde il riprovato odia il peccato e non se ne pente; se ne pente e nol detesta; lo detesta e, nel detestare il peccato, ne detesta ancora la penitenza: poichè il suo odio del peccato non è amore del pentimento, e l'odio del pentimento non è amor del peccato; ma detestando il pentimento, vorrà sempre pentirsi; e detestando il peccato, vorrà sempre peccare. Sicchè la volontà è sempre immobilmente attaccata al peccato, è sempre in istato di peccato: e però è giusto che sia sempre in istato di pena, e che un peccato sempre vivo, sempre durevole, un peccato immortale ed eterno, sia punito con un eterno ed immortale castigo: Ideo sine fine poenas luent quia voluntatem habent sine fine peccandi.

Giustizia santa, giustizia eterna del mio Dio, allontanate da noi sì gran male. Mentre siamo ancora in vita, prendetevi pure sopra di noi tutte le soddisfazioni che vi sono dovute. Non ci risparmiate per nulla; fateci pagare sino all'ultimo obolo l'immenso debito che abbiamo con voi contratto per le nostre colpe. Sì, sì puniteci pure colle umiliazioni, colle miserie, colle infermità, colla morte. Noi tutto accettiamo volentieri e con animo riconoscente e pronto, in questo mondo; ma deh! per pietà, risparmiateci nell' altro. Puniteci, flagellateci, immolateci ai giusti vostri rigori nel tempo; ma pel sangue prezioso del nostro divin Salvatore perdonateci, salvateci nell'eternità: Hic ure, hic seca, hic nihil parcas, ut in aeternum parcas (Aug.) Così sia.

OMILIA X.

LA TRASFIGURAZIONE DI GESÙ CRISTO (1).

S. Matteo, xvi, 1; S. Marco, IX, 1; S. Luca, ix, 28.

Sunt quidam de hic stantibus qui non gust-baut mortem donec videant Filium hominis venieniem in regno suo.

(Matth. xvi).

1. Si avvicinavano di già i giorni di scandalo e di delitto, che il sole dovea ricusare di illuminar col suo raggio, e che avrebbero quasi abbattuta affatto la fede ancor debole dei discepoli, alla vista della passione crudele, della morte ignominiosa del loro divino Maestro. Che fa dunque l'amoroso Signore? Ad accrescere, a corroborare questa lor fede, Ad augendam Apostolorum fidem, come dice S. Girolamo (Comm.); e, come dice S. Leone, affine di prevenire e di togliere dal loro cuore il prossimo scandalo della croce, opera alla presenza e sotto gli occhi di alcuni di loro il grande ed ineffabil portento della sua Trasfigurazione; rivela loro la gloria del la sua maestà divina nascosta sotto il velo della umana natura: e così li premunisce contro lo scompiglio, contro l'urto, che avrebbero ricevuto dallo spettacolo degli obbrobrii della sua volontaria passione: In qua transfiguratione illud principaliter agebatur, ut de cordibus discipulorum scandalum crucis tolleretur; nec conturbaret eorum fidem humilitas voluntariae passionis, quibus revelata esset excellentia absconditae majestatis (Serm.) Così il Salvatore compì la promessa che sei giorni prima avea fatta ai discepoli, quando, dopo aver loro predetta la sua passione e la sua morte, soggiunse loro: «Vi sono però qui alcuni tra voi che, prima an

(1) La narrazione che fa S. Matteo di questo grandissimo miracolo è quella che si legge alla Messa della seconda Domenica di Quaresima e della festa della Trasfigurazione, che si celebra dalla Chiesa il sei agosto. Accadde questo portento l'ultimo anno della predicazione del Signore, circa otto mesi prima della sua crocifissione e della sua morte. Il teatro di questo straordinario e sorprendente avvenimento fu il monte Tabor, nella Galilea, vicino a Nazaret ed a Cafarnao, distante circa sessanta miglia da Cesarea di Filippo. Il venerabile Beda, nel libro De' luoghi santi, riferisce che i primi fedeli aveano sul Taborre edificato tre piccole chiese in memoria della Trasfigurazione che il Signore vi operò, e del voto di S. Pietro, che volle formare ivi tre tabernacoli, uno a Gesù Cristo, il secondo a Mosè, il terzo ad Elia. Più tardi S. Elena pure, come riferisce Nice foro, vi eresse una magnifica chiesa, che dotò di molte rendite, e due monisteri, l'uno pei cristiani greci, l' altro pei latini.

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