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tesero alcuni popoli dell' antichità e non pochi filosofi miscredenti de' tempi nostri. E vaglia il vero. A parere dell'Eckhel, e d'altri dotti e giudiziosi Archeologi, la prima Moneta coniata non risale altrimenti al di là de' tempi della Fondazione di Roma, o del principio delle Olimpiadi. Fra le varie tradizioni e pretese de' popoli antichi, quella che fa inventore della Moneta coniata Fidone Argivo, che dicesi averla pel primo impressa in Egina, circa l'Olimpiade VIII, ottenne l'assenso de' più prestanti Archeologi (Eckhel, T. 1, p. VII: Müller, Handbuch S. 98: Boeckh, Corp. I. Gr. T. 11, p. 301, 316, 335); e ben a ragione, poichè le primitive e quasi informi Monete superstiti di Egina stessa sono le sole che riportar si possano a quella rimota età. (2)

(2) Vero è, ch' Erodoto (Hist. 1, 94) narra de' Lidj, che primi essi tra gli uomini, che noi conosciamo, si servirono di Monete d'oro e d'argento coniato; ma dopo tanti studi e ricerche non si conosce veruna Moneta antica d'oro o d'argento che attribuir si possa ai Lidj medesimi; quando mai altri non amasse di supporre, che alcuni de' più vetusti ed informi Darici possano spettare ai Re della Lidia, che usassero anch'essi il tipo dell' Arciere, come poscia i Persiani. Ancora può congetturarsi, che i Lidj pe' primi imprimessero una marca sopra le verghe dell' oro e dell' argento, che ne accertasse il titolo e la bontà, affinchè avessero vie più spedito corso in commercio. E lo stesso forse dee dirsi de' Fenicj, che fansi primi inventori della Moneta: εξ ολοσφύρου γαρ ισον μερισμον διειλοντο, πρωτοι χαρακτηρα εβαλλον (f. ενεβαλ λον) εις τον σταθμον το πλεον και το ελαττον (Rhetor. Gr. XIII, ed Ald. p. 180; cf. Schimko, de Num. Bibl. P. 1, p. 5). Ma il fatto si è, che delle monete Fenicie superstiti niuna può riferirsi alla rimota età che mostrano le più antiche di Egina (v. le seg. note 3, 7).

Ne' tempi anteriori alla invenzione della Moneta coniata il commercio facevasi da prima colla semplice permutazione delle cose superflue in altre più necessarie o comode; e poscia, col crescere degli agi della vita, cominciò a darsi un valore determinato ai metalli più belli, rari ed utili, all'oro cioè, all'argento ed al rame, che depurati e ridotti in masse ed in verghe pesavansi e davansi in ricambio delle merci. Dalla prima di queste due prische maniere di commercio ne venne, che le cose da principio si estimassero in ragione del pregio che facevasi degli animali domestici più utili, che formavano la precipua sussistenza e ricchezza delle famiglie patriarcali; e che poscia i metalli preziosi si dividessero in parti corrispondenti al valore di un bue, di una pecora o d'altro animale. (3) Dall'uso

(3) Di che chiara si pare la ragione del nome pecunia presso gli antichi Romani, e di QVESITÀ presso gli Ebrei, a' tempi Patriarcali; la quale voce, per consenso delle antiche Versioni, significa Pecora od Agnella, ma dee intendersi di un pezzo d'argento non coniato, equivalente al prezzo di quel caro ed utilissimo quadrupede (cf. Genes. xxx111, 19; Act. Apost. vii, 16). Stando alla Versione Volgata (Levit. v, 15) parrebbe, che a' tempi di Mosè un bello Ariete si estimasse due Sicli; ma il testo Ebraico ha un senso diverso (v. Mariana et Malvenda ad h. l.). Per simile modo il tripode proposto in premio da Achille, pe' ludi di Patroclo, era estimato 12 bovi; e la donna, esperta ne' lavori feminili, 4 bovi (Iliad. Y, 702: cf. Eckhel, T. 1, p. viii). Presso gli Egiziani pare che i metalli preziosi si pesassero in sulla bilancia contrapponendovi pesi corrispondenti al valore di un Bue, di una Gazzella e di una Rana (v. Rosellini, Monum. Civ. T. 11, p. 286; 111, p. 185).

poi primitivo di pesare i metalli in sulla bilancia, e di dividerli in pezzi di un determinato peso, ne venne che i nomi de' pesi stessi, dopo l'invenzione dell'arte monetaria, furono traslati a significare le monete impresse; e così il Siclo presso gli Ébrei, la Drachma presso i Greci, l'As o Pondo presso i Romani da prima significarono pesi determinati, e poscia Monete di un peso corrispondente.

si

I pezzi del metallo posto in commercio avevano per lo più forma di lamina o verga; donde pare derivasse il nome della moneta Greca detta oẞolos, da oẞelos, obelo (v. Interpr. ad Hesych. v. Oßɛ2015). (4)

(4) L' infelice Achan confessava il suo peccato a Giosuè, dicendo: Vidi inter spolia ducentos Siclos argenti, REGULAMQUE AUREAM (Gr. yλwooav plav xpvonv, Hebr. linguam AURI) quinquaginta Siclorum (Iosue VII, 21). L'uso delle verghe di metallo prezioso, segnatamente d'oro, si mantenne anche dopo introdotto l'uso della moneta coniata: e basti pur ricordare le verghe d'oro trovate a' giorni nostri, insieme con molte migliaia di Denarii Romani d'argento, nell' insigne tesoro di Cadriano, nascosto a' tempi della guerra civile tra Cesare e Pompeio (v. Schiassi, Ritrovamento ecc. p. 24, ed. 2). In una iscrizione Greca di Titorea de' tempi di Nerva, il servo fuggitivo è multato in settanta lamine d'argento, apyvpiov лλaτη εßdoμnxovτa (Curtius, Anecd. Delph. p. 20): sospettar potrebbesi, che nella Focide la voce яλατη avesse doppio significato, siccome la voce Italiana Piastra, che vale tutto insieme lamina, e sorta di Moneta. Ad altri popoli antichi piacque altra forma, e gli Egiziani, ad esempio, pesar solevano l'oro ridotto in tante anella di un dato peso (Rosellini, Mon. Civ. T. 111, p. 189). Di che potrebbe forse arguirsi la ragione della voce Tɛtpadpaxuov, che presso gl' Interpreti Alessandrini (Iob, XL11, 12) risponde all' Ebraica

ma

Se le verghe od obeli erano di rame o di ferro, pare che, senza pesarle, se ne prendesse una manata; di che dicesi derivata la Greca voce Apaxμn, Apayun, Apayua, che valeva sei oboli, o sia tanti obeli quanti se ne potesse stringere con una mano (Plutarch. in Lysandro c. XVII: cf. Hesych. v. Oẞɛλos). Una manata di cotali verghe legavasi talora in un fascetto, come sembra potersi arguire dai Lxx, che tradussero per δεσμος αργυριου la voce Ebraica TZEROR (Genes. XLII, 35), che poscia passò a significare sacchetto o borsa di danaro (v. Gesenius, Thesaur. p. 1188; cf. Schimko, P. 1, p. 6). In altri luoghi del sacro testo la borsa della pecunia è denominata KIS, o CHARITIM (Proverb. I, 14: Isaiae XLVI, 6). (5)

Per le spese minute, ove non potea temersi d' inganno o di abbaglio considerevole, pare che fossero

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NEZEM, che vale Anello (Gesenius, Thesaur. p. 870); poichè può ragionevolmente supporsi, che quelle Anella d'oro usate nel commercio in Egitto pesassero quattro dramme, sia due stateri Greci d'oro, sapendosi che la dramma Alessandrina pesava il doppio dell' Attica (v. Schimko, P. 1, p. 16, 17).

(5) Naaman Siro, volendo pur rimunerare quel cattivello di Giezi, ligavit duo talenta in duobus saccis, e glieli diede (IV Reg. v, 23). La voce Ebraica CHARITIM, corrispondente a saccis, a parere del Gesenius (Thesaur. p. 519), significherebbe sacchetti acuminati, della forma di un cono inverso: e tanto si conferma pel riscontro de' monumenti dell'Egitto (Rosellini, Mon. Cib. T. 111, p. 186, Tav. cx, 2); se non che in questi li sacchetti della pecunia, o sia contenenti metalli preziosi, hanno forma di cono ritto.

in corso piccoli pezzi di argento di un dato peso, che si dessero e ricevessero senza pesarli. Il garzoncello, che accompagnava Saule, si trovò avere in tasca un pezzetto di argento, che valeva un quarto di Siclo (1 Reg. IX, 8); o sia equivalente a circa 80 centesimi dell' odierna Lira Italiana. Di un pezzettino di argento, assai più piccolo, voglionsi intendere quelle parole (1 Reg. 11, 36): offerat numum argenteum et tortam panis. La Volgata antica ha obolo argenti, ed il testo Ebraico AGORAH KESEPH, che sembra rispondere al Latino stips, o sia monetuccia accattata limosinando (v. Gesenius, Thesaur. p. 22); che se corrispondeva all'obolo, varrebbe 13 0 14 centesimi di Lira Italiana.

Ma nel commercio in grande, e nelle compere e vendite di beni stabili, l'argento e l'oro pesavansi, e dovevano avere un certo titolo di bontà e purezza. La bontà dei due metalli potea esplorarsi col tocco della pietra del paragone, Lapis Lydius, Coticula (cf. Plin. xxx111, 43), o per altro modo; se pure credere non si voglia, che i mercadanti segnassero con un marchio di convenzione le verghe dell' oro e dell' argento: onde l'argento puro dicevasi, fino da' tempi di Abramo (Genes. XX111, 16), argentum transiens apud mercatores, argentum probatae monetae publicae, αργυριον δοκιμον εμποροις (cf. Gesenius, Thesaur. p. 982: Schimko, P. 1, p. 6: Ackermann, Archaeol. §. 115).

Queste prische e semplici usanze erano peraltro di troppo esposte alle frodi, antiche forse quanto genere umano; e fino da' tempi di Mosè dovea

il

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