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gran tempo in lui e ch'egli stesso cercava, e contrasse il malore che travagliatolo per più mesi da ultimo lo spense addi 18 del mese d'ottobre.

Tale fu in Senato, tale al Consiglio di Stato, dove presiedeva la sezione di grazia e giustizia. I conflitti, specialmente in materie ecclesiastiche, si erano in questi ultimi anni moltiplicati, e conveniva ad ogni momento invocare la prescrizione della legge e farne un'esatta applicazione ai vari casi. Servantissimus aequi, il Mameli conosceva poco quella parola, che è tanto in uso ai dì nostri, la transazione col dovere, colla legge. Dotato di una gran memoria, di una lucidezza di mente inalterata, egli sapeva trovar tosto il punto dove stava la giustizia e da esso non si dipartiva più. Somma era la sua diligenza nel conoscere le cause, nel portarvi uno studio continuo e severo, come lo era nell'adempiere le parti tutte del suo dilicato ed importante ufficio. Al Consiglio di Stato non gli si dava che una lode che tutte compendiava: è Mameli, e questo bastava perchè ognuno s'acquetasse ad un giudicio così sicuro, ad una così ferma coscienza.

Belli, grandi, esemplari, furono questi estremi giorni del Mameli. Omai tutte le sue speranze s'erano raccolte in Dio; e parlava e meditava questo supremo tema con la austerità di un santo Padre, e colla fede viva e potente del vero Cristiano.

Mameli era anzi tutto liberale nel senso più alto della parola, cioè egli metteva la religione come fattore primo e principale di ogni libertà; e amava appunto lo statuto di Carlo Alberto, che compendiava questa semplice verità, tanto calpesta o sciaguratamente dimenticata a'di nostri, che esser non può buon cittadino, buon liberale, chi non è veramente buon cristiano.

Mameli era l'incarnazione di questa verità ch'ei tradusse in tutti gli atti della sua vita pubblica e privata, ch'ei predicò in tutte le forme ch'eragli dato praticarla. E non senza questa capital ragione, il Papa mandavagli quella benedizione che i falsi liberali sogliono irridere forse perchè sanno di non meritarla, ma che il cristiano morente accolse colla gioia della fede sicura del trionfo.

Orazio pagano avrebbe fatto del Mameli quella celebre pittura che tutti ripetono, ma che a pochi si attaglia, del justum et tenacem propositi virum ec.

Niuno più del Mameli si ribellò all' 'ardor civium prava jubentium. Niuno meritò al pari di lui quel nec mente quatit solida, tanto necessario a chi pensa davvero al governo degli Stati.

E perchè ciò? Mameli non era nè un gran filosofo, nè un grande oratore, nè un gran statista nel moderno significato. Era un credente, e indi la sua forza, la saldezza, l'onestà, l'equanimità

del suo carattere e quel mirabile complesso di virtù civili che il tutti caro e venerato.

resero

La morte del Senatore Mameli priva il Parlamento Italiano di uno de' suoi più saldi e fidi sostegni, personificando egli nella fede e nelle opere il gran principio liberale, che consocia e armonizza indissolubilmente religione e libertà. Il Mameli aveva chiaro e preciso l'intuito de' tempi e delle loro necessità. Sentiva e vedeva che la lotta malamente accesa e sconsigliatamente mantenuta fra questi due grandi fattori dell'incivilimento, avea travolto le opinioni e gl'ingegni, e che il pericolo non istava già nell'esagerazione dell'una o dell'altra, ma nella perdita d'entrambe, quando gli esageratori della libertà proseguissero loro sciagurata via. Egli non era di coloro che si appagano senza profondo esame di nomi e di frasi, comunque ricevute e blandite; mirava diritto alla sostanza delle cose, spregiando del pari i volgari clamori e le dotte utopie, per tenersi fermo a ciò che reputava irremissibilmente salute dell'Italia. Perciò schietto e riciso nell'annunziare le verità, frutto della sua lunga esperienza, respingeva ogni ambiguità di pensiero e di forma, badando a scolpire netta la sua idea negli animi altrui, preparati o non preparati fossero a riceverla.

Roma, 6 novembre 1872.

GIORGIO BRIANO.

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ANCORA DELLA ESPOSIZIONE DI MILANO

E SEGNATAMENTE

DELL'ARTE ANTICA

Come, accolta nell'intimo dell'animo preparato degnamente a riceverla, e riscaldata dal calor dell'affetto, la concezione delle cose esteriori fiorisca in bellezza; come nè da sola la precisa rappresentazione della natura, nè dalla sfrenata significazione delle arbitrarie immagini, tra cui la fantasia imbizzarrisce, ottengasi la estetica verità: la storia dell'arte e degli artisti lo prova copiosamente. Percorriamo la Pinacoteca di Torino, entriamo in Brera, passiamo alle Gallerie degli Uffizii e de' Pitti, osserviamo i quadri intorno a cui più unanime si raccoglie la lode degli artisti e dei non artisti; e noi ci troveremo in quel mondo, che è simile a questo in cui tutti i giorni viviamo, ma dove trovasi diffuso, come l'atmosfera respirabile nel nostro, il pensiero. Il pensiero: ecco cosa cerca l'uomo nell'arte: questo costante oggetto dell' amor suo e della sua ammirazione, fermato, per così dire, in qualche cosa di più o meno sensibile, così che lo vi si possa studiare, notomizzare a bell'agio. Il soggetto divenuto oggetto a sè medesimo, non astrattamente come nella Psicologia nella logica, non genericamente come nella storia ma individualmente, compiutamente, attualmente, ecco cosa chiede all'arte l'interesse della civiltà universale, ecco la moralità vera dell'arte. La moralità dico; inquanto porre l'anima umana e gli atti di lei, come obietto, è porre questi atti a riscontro di que' principii di logica e di etica da cui se ne può giudicare la verità e la bontà; ufficio morale più vero e più essenziale alla natura dell'arte che i predicozzi con cui s'interrompe la storia; i precetti che l'attaccano quasi coda, in fine alle favole.

Io non esagererò l'importanza della Esposizione d'arte antica in Milano. Invitate tardi, costrette a scegliere in fretta, con poche guarentigie per la conservazione degli oggetti d'arte esposti, le famiglie Milanesi inviarono una piccolissima parte dei tesori di bellezza che racchiudono i palazzi e le ville della opulenta città. Ma il sapere appunto che quella ne è una piccolissima parte, ci fa sentire più vivamente che abbondanza di pensieri e di affetti ci abbiano nelle loro opere legata i venerandi maggiori; ci acuisce il desiderio di quella splendida vita che si visse un tempo in Italia, quando il suono delle cose di fuori, echeggiando nelle anime, trasformavasi in nuove armonie di note, di versi, di colori, di linee. A noi, sovente splendidi senza eleganza e gretti senza economia, a noi che paghiamo più una cornice che un quadro, resta di quei giorni un repetio, che manifesta insieme e la ingenita potenza del fare, e la distanza che ci separa dal punto a cui dovremmo essere, per debito di nobiltà, pervenuti; a cui altre nazioni sono, qual più qual meno, tutte troppo più vicine che noi.

Trattandosi di quadri antichi e d'autori notissimi, credo inutile tentare un giudizio; inefficaci le descrizioni. Accennerò come l'essere la festa e l'esposizione inspirate segnatamente alla memoria di Leonardo da Vinci, crescessero pregio di opportunità a due quadri espostivi, creduti di lui; certo della sua scuola; ad altri otto o nove di Marco d'Oggiono; ed a quelli di Cesare da Sesto, del Boltraffio, e di Lorenzo da Credi: sono pressochè tutti di soggetto religioso; ed è tra questi notabile un cartone attribuito a Leonardo, dove nell'immagine di una santa, raffigurasi quella Monna Lisa del Giocondo della quale il ritratto va tra le opere di Leonardo meglio pregiate: eccesso di realismo che accennava all'abuso osceno venuto poi, per cui ne'quadri di chiesa, potevano i fedeli riconoscere le meretrici regie e patrizie. Il Boltraffio interrompeva la dipintura de' suoi santi, pel ritratto del Moro, che esposto qui richiama al pensiero gli originali Milanesi che esso Moro offeriva a Carlo VIII e i ritratti, in vero un po'liberi, che di essi originali riportava Carlo a Francia sua, dopo aver qui lasciato ben altre cose. A vedere l'armature etrusche esposte dal signor Poldi-Pezzoli, e l'altre del secolo decimoquinto e sesto dello stesso signore torna il pensiero su’Galli invadenti senza resistenza e l'Etruria non bene confederata, e l'Italia intera discorde, senza che nè prima nè poi nuocessero loro quell'armi; e quanto fossero inutili quell'armi lo dice posto là in mezzo un busto di Don Filippo IV di Spagna che con una accigliatura da fare spavento anco in bronzo, par che dica come già in altre occasioni la statua di Don Filippo II; ora son qua io, marmaglia. - Appartengono non meno che le armi, alla storia delle vergogne e dei dolori d'Italia, certe carte da giuoco che Marziano da Tortona incideva per Filippo Maria Visconti, con sopravi santi; cosa degna dell' uomo e del secolo, che la religione

impugnando come arme di lama corta ed acuta (i pugnali di quel tempo pajono lingue di serpe) de'Santi facevasi giuoco. Del pari che i bellissimi libri miniati esposti dal Marchese Trotti ambirei vedere in una vetrina del Marchese Trivulzio, la grammatica scritta appositamente per Massimiliano Sforza, e sapere se lo scrivere per un alunno ducale avesse inspirato i Grammatici, come scrivendo per il suo alunno regale inspiravasi il Bossuet agli scritti di cui molti dotti non titolati, gli furono più tenuti forse che il troppo famoso Delfino. Voglia Iddio che, fatto agli scriventi e agli artisti tutti in Italia, più che Duca e più che Delfino il popolo nostro sappiano trovare per lui parole e forme e colori che degnamente lo preparino al regno della intelligenza e della moralità.

GUIDO FALORSI.

Tra le varie perdite che nel corso della sua vita deve registrare la Rivista Universale, oggi annunziamo ai Lettori quella dolorosissima del Cav. IPPOLITO MASCI ex Deputato al Parlamento Italiano, Magistrato integerrimo, così buon cattolico come distinto liberale. Altri consacrerà alla sua memoria apposite parole. Noi intanto raccomandiamo agli Amici della Rivista un nome così caro e venerato.. LA DIREZIONE.

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