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alla testa di circa 100 mila uomini agglomerati nella penisola di Genevillers, ed assaliva le posizioni prussiane al sud del Monte Valeriano, mirando a Versailles. Il generale Ducrot dirigeva la destra, il generale Bellemare il centro, il generale Vinoy la sinistra. I Tedeschi (5° corpo prussiano e divisione di Landwehr della guardia) si tennero al loro solito fermi nelle trincere ed attesero l'assalto. Sulle prime la lotta fu ben sostenuta; ma ben presto i Francesi, cui non animava più quell'ardore onde avevano data sì chiara prova il 30 novembre, che forse erano indeboliti anche fisicamente da cinque mesi di nutrimento limitato, e che in oltre, per l'angustia dello spazio, non potevano spiegare le loro masse, mentre il cannone nemico vi andava menando spaven tosa strage, presero ad indietreggiare, lasciando il terreno coperto di morti e feriti; nè più si potè ricondurli innanzi.

La sortita del 19 gennaio fu come l'ultimo sprazzo di luce del lume che si spegne. Completamente esaurite le provvigioni da bocca, inutile ed impossibile il prolungare la resistenza, fu forza scendere a patti. Ma qui ha termine il còmpito che ci siamo prefisso; qui si chiude l'ultimo atto di quella guerra tremenda la quale, principiata con leggerezza incredibile, finiva col trattato più gravoso che da molti secoli la Francia avesse dovuto subire.

V.

Rivolgendo ora lo sguardo sugli avvenimenti che abbiamo rapidamente accennati, dobbiamo francamente confessare che non comprendiamo come si possa accusare la Francia del 1870-71 di essersi mostrata indegna del suo passato, inferiore a sè medesima. Senza dubbio se si prendono solo ad esaminare i fatti nella loro cruda semplicità, se si considera solo la serie inaudita di rovesci che da Weissemburg e Wörth condussero alle capitolazioni di Parigi e dell'esercito dell' Est passando per Sédan, Metz, Orléans, Le Mans e St. Quentin, pare a tutta prima che la Francia sia decaduta talmente da non lasciar speranza di rialzarsi per lungo spazio di tempo. Ma, a nostro avviso, gli avvenimenti del 1870-71, per ciò che riguarda la Francia non vanno unicamente considerati alla stregua del successo. Se sarebbe puerile voler nascondere o scusare l'errore colossale che essa commise gettandosi ciecamente in un'avventura tremenda senza misurarne la grandezza, senza adeguarvi gli apparecchi; se sarebbe inutile il voler asserire che capitolazioni come quelle di Sédan e di Metz. nelle quali più di 100 mila soldati deponevano le armi, siano fatti ordinarii e non accennino invece ad una momentanea decadenza nello spirito militare della nazione più bellicosa del mondo, sarebbe del pari ingiusto ed assurdo il voler chiudere gli occhi all'immenso sforzo morale di un paese il quale, dopo disastri di

quella natura, non esita a proseguire una lotta disperata, mettendo in campo l'uno dopo l'altro cinque o sei considerevoli eserciti. Certo che, militarmente parlando, questo fatto stesso di esporre successivamente le proprie forze disunite alle forze compatte dell'inimico, mandandole così a quasi certa disfatta, costituisce un grande errore: ma, moralmente, pare a noi una prova di energia che ha pochi riscontri nella storia moderna. Se l'Austria diede un esempio mirabile di costanza nel 1796, mandando l'uno dopo l'altro contro a Bonaparte ben cinque eserciti, e gettando così, malgrado i suoi rovesci, le basi della sua futura grandezza, che dovrà dirsi della Francia del 1870-74 ? Vinta a Weissemburgo ed a Metz, essa allestisce prontamente un secondo esercito che muova alla riscossa del primo. Annientato questo per un disastro che fino allora non aveva l'uguale, non si perde d'animo, ma, valendosi dei pochi istanti di tregua che il nemico, arrestato dalle mura di Parigi è costretto ad accordarle, con febbrile attività ne mette in campo tre altri; uno in Parigi, uno al Nord, e un terzo sulla Loira. Se non che, appena queste nuove forze sono riunite, appena hanno cominciato col felice combattimento di Coulmiers le loro operazioni dirette alla liberazione della capitale, ecco che la resa inesplicabile di Metz getta un' altra volta la Francia nel fondo dell'abisso. Tuttavia neppure allora essa dispera di sè medesima; neppure allora si decide a prostrarsi ai piedi del vincitore. Battuta ad Amiens, battuta ad Orléans, battuta sotto le mura di Parigi, trova ancora la forza di protrarre la lotta per due lunghi mesi, e non cede se non quando, caduta per fame la sua capitale, essa si vede ridotta ad assoluta impotenza. Egli è in questa maravigliosa perseveranza nella sventura che noi scorgiamo il germe d'un risveglio non molto lontano di quella nazione (1). Se gli effetti di un tale risveglio non si fecero sensibili già nella scorsa guerra, ne vanno addebitate le circostanze eccezionalmente difficili in cui i primi rovesci avevano gettata la Francia. Ma del resto, quando mai si vide una nazion 'e, dopo daver perduto si può dir tutti i suoi generali, i

(1) Ci piace di riprodurre a questo punto l'opinione non certo sospetta di due autori tedeschi che scrissero sull'ultima guerra. Ecco come si esprime il signor di Wickede nel lavoro che già ebbimo occasione di citare altrove. a Il patriottismo francese, noi lo confessiamo con tutta l'imparzialità, ha fatto dopo Sédan molto più di ciò che lo credevamo sulle prime; esso ha armato eserciti molto più numerosi di ciò che non supponevamo; ha fatto durare la guerra molto al di là del termine che noi gli avevamo assegnato allora. Ufficiali e soldati, noi credevamo il 1° settembre che in capo ad un mese tutto sarebbe terminato; ce ne vollero quattro. >>

E l'autore di una serie d'articoli assai pregiati sulla capitolazione di Metz scriveva nel Militair Wochenblall di Darmstadt: « Egli era del resto in quel momento (26 agosto 1870) impossibile di contare sulle formazioni che servirono più tardi ad improvvisare eserciti intieri e per le quali la giovane repubblica ha maravigiiato il mondo. »

suoi ufficiali, i suoi soldati, le sue artiglierie, i suoi arsenali, le sue più grandi piazze di guerra, creare nuovi eserciti, presentare ad un nemico vittorioso ed innumerevole una tenace, vigorosa, generale resistenza, e rimettere in quistione l'esito finale della guerra che esso già credeva assicurato? Quando si vide una città di due milioni d'abitanti, non difesa sulle prime che da pochi soldati sconfitti e disordinati, formare nel suo seno un esercito di 200 mila uomini, dotarlo di tutto il necessario materiale, sostenere senza vacillare un bombardamento di un mese intero, e non piegare il capo se non costretta dalla fame dopo un assedio di 130 giorni? Quando si videro eserciti improvvisati, composti quasi totalmente di coscritti appena addestrati al maneggio di un' arma, sostenere battaglie di quattro giorni come quella della Loira ad Orléans, ed eseguire con tanto ordine, con tanta calma una ritirata come quella del generale Chanzy su Le Mans? È vero che il successo non coronò questi sforzi come all'epoca della prima rivoluzione; ma è vero eziandio che, colle mutate condizioni dei tempi, la vittoria era pressocchè impossibile. Primieramente gli eserciti della convenzione nazionale erano lungi dall'avere a fronte nemico che neppure alla lontana si potesse paragonare e per numero, e per potenza d'ordinamenti, e per abilità di capitani, e per unità di direzione coll' esercito della Germania odierna, esaltato da sì maravigliose vittorie. In secondo luogo, mentre le soldatesche repubblicane che salvarono la Francia nel 1793-94 comprendevano nelle loro file tutto l'antico esercito regolare, ed in gran parte avevano già avuto più anni di tempo ad esercitarsi, quelle del 1870 al contrario, appena raccozzate, dovettero marciare contro alla più ben ordinata milizia del mondo senza quadri, senza munizioni, male armate e peggio nutrite, durante un inverno dei più rigidi di cui si abbia ricordo; e ciò in un tempo in cui è più che mai divenuto difficile a cerne novizie il resistere all'urto di veri soldati. Imperocchè, se sullo scorcio del secolo passato poteva ancora accadere che una massa di contadini o d'operai forniti di fucili da caccia o di altre simili armi, grazie al numero ed all'entusiasmo, riportassero talvolta qualche vittoria sopra un numero minore di uomini di guerra muniti soltanto di fucili a pietra, oggi, colle armi perfezionate il cui maneggio richiede lunga pratica e molta calma, colle artiglierie numerosissime, colle ferrovie e col telegrafo che rendono difficili più che mai le sorprese e permettono ad un esercito ben diretto di moltiplicarsi contro un nemico anche doppio o triplo, un tal fatto è divenuto impossibile.

Noi non ignoriamo che, trovando insufficenti queste ragioni, un illustre generale americano, il quale andò seguendo le operazioni nel 1870-71 presso lo stato maggiore prussiano, non si peritava di affermaro che, nella cessata guerra, i Francesi si batterono male. Ma senza venir meno a tutto il rispetto che meritano le parole di un personag

gio di sì gran merito, dobbiamo dichiarare che una opinione simile ci pare ben poco fandata. Ed in vero, se quel generale voleva parlare dell'esercito regolare, poteva forse dire che esso lasciò alquanto a desiderare per riguardo a fermezza, a solidità, a forza morale, ma non certo a bravura; imperocchè le battaglie di Weissemburgo, di Wörth, di Gravellotte, in cui i Francesi combatterono intere giornate contro un nemico due o tre volte più numeroso, potrebbero troppo facilmente smentirlo. Se poi intendeva alludere alle nuove leve messe in campo dalla Francia dopo la distruzione degli eserciti del Reno e di Châlons, prima di giudicarle sì severamente, egli averebbe dovuto considerare che, avuto riguardo alla brevità della istruzione, all' infelice composizione dei quadri, alla poca fiducia nel successo che poteva loro rimanere dopo i disastri dei veterani di Crimea e d'Italia, esse si portarono in tutta la guerra meglio di tutte le milizie d' ugual conio che siano mai esistite. Egli avrebbe dovuto rammentare che quegli eserciti americani a capo dei quali aveva raccolto tanti allori, alla battaglia di Bull's Run fuggirono non lasciando sul terreno che il 2% in morti e feriti, mentre le nuove leve francesi nella grande sortita di Parigi, nelle battaglie di Orléans, di St. Quentin ec. perdettero molto spesso il 10% e più ancora. Egli avrebbe dovuto rammentare che, a quella stessa battaglia, vi furono reggimenti di volontarii i quali rifiutarono di battersi perchè la loro ferma era scaduta, mentre i coscritti francesi accorrevano volenterosi ad offrire la loro vita per una causa omai perduta, a morire coraggiosamente non solo sui campi, ma fra gli stenti delle marcie e del freddo, fra le miserie degli ospedali. Egli avrebbe dovuto rammentare che i reggimenti di Rosencranz, di Mac-Clellan, di Grant ec. i quali regolarmente avrebbero dovuto contare mille uomini ciascuno, partivano il più delle volte con 150 soldati. Egli avrebbe dovuto ricordare infine, se voleva uscir dall'America, che 10 mila di quei volontari di Dumouriez che poscia diventarono i primi soldati del mondo, fuggivano nel 1792 davanti a 1200 ussari prussiani. Se quel generale americano avesse riflettuto a tutto ciò, probabilmente avrebbe modificate le sue opinioni sul conto delle nuove leve francesi, le quali durante cinque mesi contrastarono il suolo del loro paese ad un nemico numeroso, agguerrito e vincitore; probabilmente sarebbe esso pure venuto nella persuasione, sì profonda in noi, che l'attitudine della Francia in quell'anno di terribili prove, non che di biasimo, è degna della più grande ammirazione.

PIETRO FEA.

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DELLA INTERPRETAZIONE DATA DAL SIGNOR CICUTO

DEI DECRETI VATICANI.

(Contin. e fine. V. pag. 85 e segg.)

Lettera II.

Reverendissimo Sig. Arciprete

Vi confesso, caro Arciprete, che a malincuore entro nella discussione sul canone dell'infallibilità. Dopo i commenti, o per dire meglio, gli appunti fattivi dalla Civiltà Cattolica, e da Mons. Giovannini, che rimarrebbe ancora a me da aggiungere? Dovrei pigliare le vostre difese, o fare eco alle accuse dei vostri censori? Il Sig. Buroni della Missione con un discernimento finissimo ed una indipendenza di sentire che altamente lo onora, ha sceverato nella vostra dissertazione le parti lodevoli dalle difettose, senza avere perciò diviso le opinioni dei vostri critici (1). Egli avrebbe in tale guisa soddisfatto egregiamente per me a questo compito. Senonchè a parlarvi schietto nè da lui, nè da voi, nè da altri fu appagato pienamente il mio desiderio su questo argomento.

La vostra trattazione si può considerare divisa in due punti corrispondenti ai due membri del decreto conciliare. Nel primo discorrete in quale senso voglia essere riconosciuta la dottrina sulla infallibilità del Pontefice, nel secondo vi volgete ad interpretare il valore di quelle sue definizioni proclamate irreformabili dal Concilio. I vostri antagonisti unanimi hanno rilevato il

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(4) È un opuscolo di 38 pagine intitolato Di un Equivoco circa l'Infallibilità Pontificia con due appendici ec. Torino Unione Tipografica. Il Buroni è un ecclesiastico assai benemerito degli studi sacri. Così in questo scritto come in altri già pubbli-" cati si mostra un Teologo dialettico, ed un dialettico che colla scorta della Teologia rassoda e dilucida a maraviglia i dommi cristiani.

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