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INTERLOCUTORI.

GALATEA.

ACIDE.

POLIFEMO.

GLAUCE.

TETIDE.

La scena si finge in Sicilia, vicino alla marina, alle falde del monte Etna.

Gal.

A

PARTE PRIMA.

Galatea, e Acide.

h taci, Acide amato,
Taci, che da quel sasso

Polifemo non t' oda, ove s'asconde.

Se vuoi tra queste sponde
Più sicuro ricetto
Al timoroso affetto,
Colà meco ne vieni

Dove quel cavo scoglio

Sovra il placido mar curva la fronte,
El tranquillo Ocean fa specchio al monte.
Aci. Vezzosa Galatea, dolce mia pena,

Tu sai quanto t'adoro,

Tu sai se da te lungi io vivo, o moro:

E pur fra queste braccia

Cosi tarda ritorni, e vuoi ch'io taccia?

Gal. Se credo al gran

desio,

Sempre tardi ritorno, idolo mio;

Se penso al tuo periglio,

Son troppo spesso a vagheggiar quel ciglio.

1

Timor mi scaccia,
Mi chiama Amore;
Questo m'agghiaccia,
Quei in' arde il core;

E l'uno e l'altro penar mi fa.
E l'alma prova

Dentro al mio petto
Doppio tormento,
Contrario affetto,

E un sol momento
Pace non ha.

Aci. No, non temer mia vita. Amor m'insegr
A deluder con l'arte

Del geloso Ciclope i sdegni, e l'ire.
Tu pensa intanto, o cara,

Che d'ogni altro tormento,

Fuor che dell' odio tuo, per questo core

Lo star da te lontano è mal peggiore.

Gal. Ah se veduto avessi,

Come vid' io dalle materne spume,

Di quai cibi funesti

Pasca l'ingordo ventre il mostro indegno,

Saria più cauto il giovanile ingegno.

Aci. E che vedesti mai? Gal. Vidi il crudele

Frangere incontro al sasso

Un misero pastor, che al varco ei prese.

Per farne orrido pasto alla sua fame
Lo stracciò, lo divise;

E le lacere membra

Tiepide, semivive,

Sotto i morsi omicidi

Tremar fra' denti, e palpitare io vidi.

E l'atro sangue intanto,

Che spumeggiava alle sue zanne intorno,
Uscia per doppia strada ( oh fiero aspetto!)
Dal sozzo labbro, e gli scorrea sul petto.
S'io piansi a tanto orrore,

Per me narralo Amore,

Che solo, Amor, tu sai,

Perchè piansi in quel punto, e a chi pensai. Aci. Anch'io di quel meschino

Piango la ria sventura;

Ma nulla fa chi d'ogni rischio ha cura.
Mi sgridi, e mi minacci

L'importuno rivale a suo talento,
Mai per timor non cangerò consiglio;
Troppo bella mercede ha il mio periglio.
Chi sente intorno al core
L'orrore, e lo spavento,
Non dia le vele al vento,
Non fidi il legno al mar.
Dà la mercede Amore
A chi sue leggi adora;
Ma vuol che l'alma ancora
Impari a sospirar.

Gal. Ah fuggi, Acide, fuggi, ecco l'indegno.
Aci. Dove! Gal. Colà nol vedi,

Che mentre al rozzo suono

Delle stridule canne il canto accorda, Peloro e Lilibeo co' gridi assorda? Aci. Aimè! tu m'abbandoni?

Gal. Deh fuggi, idolo mio!

Aci. Addio, dolce mio ben. Gal. Mia vita, addio.

Polifemo.

Dalla spelonca uscite,

Che gia fuggir le stelle,
Agnelle semplicette,
L'erbette a pascolar;
Mentr' io vo sul confine
Di questa rupe alpestra
D'edera, e di ginestra
Il crine ad intrecciar.

O biança Galatea,
Più candida del giglio,

E dell'alba novella

Più vermiglia, e più bella,

Più dell'ostro vivace,

Ma del vento più lieve, e più fugace;

Perchè, perchè mi sprezzi, e solo allora,
Ch'io chiudo i lumi al sonno,

Ne vieni, e mi consoli;

Poi col sonno, che parte, a me t'involi?
Sai che ad amarti appresi infin d'allora,
Che fanciulla venivi

Con la marina Dori,
Tua dolce genitrice,
Su per l'Etnea pendice

I giacinti a raccorre, e le viole;
Ed io teco venia,

Cortese guida alla scabrosa via.
Io n' arsi, e tu crudele

Di me non ti rammenti,

E i miei pianti non curi, il duol non senti? Lo so perchè mi fuggi,

Semplicetta, lo so; perchè si stende

Dall' una all'altr' orecchia il ciglio mio;
Perchè un frondoso pino

A' miei gran passi è duce,

E un sol occhio è ministro alla mia luce. Ma forse così vile

Appo te non sarei,

Se volessi una volta

Rimirar con più cura il mio sembiante,
O se d'Acide tuo non fossi amante!

Gla.

Glauce, e Polifemo.

Cielo, ecco il Ciclope!

Pol. Glauce, Glauce, ove vai?

Ascolta, e se lo sai,

M'addita in quali sponde

La tua compagna Galatea s'asconde. Gla. Anch' io per queste arene

Vado in traccia di lei,

E altrove ricercarla io non saprei. Pol. Chi sa ch'ella nascosta

In qualch' antro non giaccia

Con quel folle garzon, per cui mi scaccia. Gla. Oh quante volte, oh quante

Io le dissi per te; stolta, che fai.
Tu disprezzi un pastore,
Per cui soffrono al core

Cento ninfe vezzose,

Ma tutte indarno, l'amorosa cura:
E tu fuggi così la tua ventura?
(Sei pur stolto se il credi.)
Pol. Bella Glauce, tu vedi

Che cosi rozzo, e così vil non sono;

E pur m'odia, e m'abborre. Ah dille almeno,
Qualor seco favelli,

Che qualunque io mi sia, s' ella mi fugge,
V'è chi per me si strugge;

Dille che più d'ogni altro

Siciliano pastor ricco son io;

E che della mia greggia,

Qualora esce dal chiuso, Etna biancheggia;
Dille che tutto in dono

Avrà da me, purchè non sia crudele;

Ch'è il sospirar per lei

L'unico mio diletto:

Che ho Alfeo nel ciglio, e Mongibello in petto.

Glauce.

Le dirò che vago sei:
Le dirò che tu l'adori,
E che t'ami io le dirò.

Pol. Io non so qual diletto

In quel sen co' detti miei
Desterò novelli ardori,
E gli antichi ammorzerò,

Abbian le Ninfe ad abitar nell' acque.
Oh quanto, Glauce, oh quanto
Fora meglio per lei

Meco i giorni passar su l'erba assisa,
Là dove all' antro mio

I cipressi, e gli allori accrescon l'ombra,

E l'edera tenace il varco ingombra!

Gla. Questo ancor le dirò... Pol. Se poi mi scaccia
Perchè l'ispide sete

Mi fan velo alle membra, impaccio al mento;
Dille ch' io son contento

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