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quella di difendersi dalle opposizioni de'critici ed addita i fonti delle difese.

Dice dunque che, essendo imitatore il poeta, non meno che lo statuario ed il pittore, è inevitabile che rappresenti il suo soggetto o quale egli è stato: o quale egli è, ed è creduto: o quale dovrebbe essere e che, essendo le parole i mezzi de' quali egli si vale per le sue imitazioni, possono quelle essere o proprie o straniere, o metaforiche o alterate dall' arbitrio concesso a'poeti. E vuole che tutte le difese si traggano da questi fonti, come se ne trasse quella a favore di Sofocle, che, accusato di non rappresentar gli uomini quali essi sono, secondo il costume d'Euripide, rispose ch'ei li rappresentava quali dovrebbero essere.

Pretende che gli assurdi medesimi, quando ottengano il fine di produrre il mirabile ed il dilettevole, non siano condannabili in un poema. Ecco le sue parole. È, secondo i principj, certissimo che si cade in erro, facendo cose riguardo all'arte impossibili; ma il tutto sta bene, se si conseguisce il suo fine (1). Morale estremamente

(1) Πρῶτον μὲν γὰρ ἂν τὰ πρὸς αὐτὴν τὴν τέχνην

rilasciata; nella quale è forse trascorso Aristotile per l'impegno intrapreso di sostenere l'inverisimile ignoranza di Edipo intorno alle circostanze della morte di Lajo.

Produce poi molti esempi della maniera, con la quale, valendosi delle sopra addotte distinzioni de' soggetti e delle parole, debbono difendersi alcuni passi d'Omero, che potrebbero parer condannabili. Or qui l'omerico Dacier impiega tutto il suo, ricchissimo in vero, arsenale letterario per sostenere Omero impeccabile. Non lascia senza risposta nè pur una delle opposizioni a quello fatte fin ora; asserisce pieni di profonda fisica e morale filosofia i deboli e viziosi caratteri da Omero attribuiti agli Dei; ed esalta came nobilissime alcune di lui comparazioni, che forse per l'enorme cambiamento de' costumi, nel corso di tanti secoli necessariamente avvenuto, tanto compariscono ora indecenti. Non so se tutto ciò ch'egli su questo proposito asserisce, sia concludentemente provato; ma è bensì provato ad evidenza in questo

ἀδύνατα πεποίηται, ἡμάρτηται. ἀλλ ̓ ὀρθῶς ἔχοι, εἰ τυγ· Xáves To TÉλus aus. Arist. Poet. Cap. XXV Tom. IV pag. 30 B.

suo erudito trasporto, che il giusto rispetto, che tutti abbiamo, e dobbiamo avere per cotesto venerabile padre de' poeti, era in lui degenerato in cieca idolatria.

Finisce Aristotile il Capitolo, confortando i poeti a valersi per le loro difese de'fonti accennati, che in tutto egli dice esser dodici. Or Pietro Vittorio, Heinsius ed altri, avendo trovato questo numero minore de' fonti di sopra rammentati, ne han disperato il ragguaglio, Ma Dacier e Castelvetro credono averlo trovato, contando, ciascun d'essi per altro in modo diverso, i fonti che soprabbondano, come parti di quelli che ammettono nella dozzina. Si può, cred' io, lasciar senza discapito a chi l'ambisce tutta la gloria di questo calcolo.

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CAPITOLO XXVI.

Se sia opera più perfetta il poema epico, o il tragico. Ragioni favorevoli al primo, e confutazioni delle medesime. Che i rapsodi recitavano cantando. Decisione a favore della tragedia.

P.

ropone Aristotile in quest' ultimo Capitolo la questione, se sia più da stimarsi l'epopea, o la tragedia. Platone avea deciso per la prima: egli è per la seconda. Ma incomincia dall' esporre le ragioni contrarie alla propria opinione.

pea,

Dice che potrebbe parer migliore l' epoessendo essa fatta per la gente colta; ma la tragedia pel popolo: che l' epopea conseguisce il suo fine, appresso gli uditori intendenti, sola, e senza alcun soccorso: ed ha bisogno all'incontro la tragedia d'abiti, di decorazioni e di attori, ricorrendo a' gesti, per rendersi intelligibile come fanno i cattivi sonatori di tibia, che, non abili ad imitar col solo suono del loro stromento, credono di esprimere co' ridicoli moti del corpo ciò che intraprendono di rappresentare. Che a Tomo XIV.

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epopea;

tale inconveniente non è esposta poichè, eseguendo la sua imitazione col mezzo de'soli versi, non corre il rischio d'essere contraffatta dagl' indecenti movimenti delle scostumate donne, anche a' suoi tempi, dagli ístrioni imitati; nè dalle altre caricature dell' attore Callipide, che meritò il nome di simia dal savio ed eccellente comico Munisco. Di modo che, secondo questo ragionamento, sarebbe l'epopea a riguardo della tragedia ciò che il composto Munisco era a rispetto dell' affettato Callipide,

Risponde Aristotile in primo luogo che tutti gli asseriti difetti non sono dell' arte de' poeti, ma di quella degli attori. Ed in fatti, come aggiunge saviamente Dacier, se dovesse giudicarsi del merito della tragedia da quello de' rappresentatori, una tragedia medesima sarebbe or buona, or cattiva.

Nega poi Aristotile, che non abbia bisogno di soccorsi l'epopea, asserendo che non sono men necessari ad essa gli abili recitatori di quello che siano al dramma gli attori destri ed esperti; valendosi del gesto i rapsodi, come gl' istrioni; e succedendo, son le parole d'Aristotile, che il rapsodo ancora pecchi d'affettazionę ne' gesti, come face,

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