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tile, secondo la testimonianza di Quintiliano, avea dato altrove all' orazione tre sole parti: cioè il nome, il verbo e la congiunzione; e qui ne dà otto, cioè la lettera, la sillaba, la congiunzione, il nome, il verbo, l'articolo, il caso e l'orazione. E decide Dacier che questa non è contraddizione; perchè, quando Aristotile assegnò tre sole parti all'orazione, parlava da filosofo; e qui, assegnandone otto, parla da poeta. Chi mai non ne rimarrebbe convinto?

CAPITOLO XXI.

Continuazione dell' intrapresa grammatical divisione de' nomi o sien parole, in molte classi. Spiegazioni di tutti, a riserva di quelli, che chiama nomi ornati. E minuta esposizione della metafora

Continua

.

Montinua Aristotile in questo Capitolo la sua grammatica, dividendo i nomi, cioè le раrole, in semplici e composti; i composti in quelli, che contengono due o più voci: e questi in quelli, che uniscono voci significanti ciascuna per sè stessa: e quelli,che compongono di voci, per sè stesse non

si

significanti, o delle une e delle altre mescolate. Dice che ogni nome o è proprio o straniero, o metaforico o ornato, o inventato o allungato, o accorciato o cambiato: e non trascura d'insegnarci in quali lettere dell' alfabeto terminano le parole de' diversi generi, mascolino, femminino e neutro; e quali eccezioni in ciò soffrano le regole generali. E tutto ciò entra benissimo nell'arte poetica, secondo la decisione di Dacier nel Capitolo antecedente; perchè da questi insegnamenti s'impara, dice egli, ad esser dolce ed armonioso. Spiega quindi il filosofo, ad una ad una, le sue divisioni de' nomi; ma trascura affatto d'insegnarci che cosa intenda per nome ornato; e si diffonde all' incontro sul metaforico. Ma tutto ciò, ch'egli qui dice della metafora, non bisogna punto al poeta, che ha già studiato rettorica: ed a quello, che non l'ha studiata, non basta. La spiegazione, che trascura Aristotile de'nomi, cioè delle parole, ch'ei chiama ornate, parmi visibilmente supplita da Orazio nella sua arte poetica dal verso 234. sino al 243. Anzi è chiaro che vaJendosi il poeta in questo passo de' medesimi non comuni termini usati dal filosofo : cioè di

upía óvópata dominantia nomina; ci convin

κυρία ὀνόματα

ce d'averlo avuto nello scrivere precisamente

presente .

Non userei sol voci incolte, e tutto

Non col suo nome a dinotar, s'io fossi
Di satirici drammi autor, torrei.

Nè dal tragico stil tanto, o Pisoni,
Studierei di scostarmi, onde parlasse

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La stessa lingua e il buon Silen, di un Die
Ajo e seguace; e Davo, e la sfacciata
Pizia, qualor, nello scroccare accorta,
Dall' avaro Simon spreme un talento.
Di note voci i versi miei formati
Vorrei così, che conseguir l'istesso

Speri ciascun; ma, se l'istesso ardisce,

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Sudi, e s'affanni in van. Tanto han di forzą L'ordine e l'union! Tanto è di nuovo

Splendor capace ogni comune oggetto (1)!

(1) Non ego inornata et dominantia nomina solum Verbaque, Pisones, satyrorum scriptor amabo; Nec sic enitar tragico differre colore,

Ut nihil intersit, Davus ne loquatur, et auda
Pythias emuncto lucrata Simone talentum ;
An custos famulusque Dei Silenus alumni.
Ex noto fictum carmen sequar, ut sibi quivis
Speret idem: sudet multum, frustraque laboret,
Ausus idem. Tantum series, juncturaque pollet!
Tantum de medio sumptis accedit honoris!

Horat. Poet. v. 234.

CAPITOLO XXII.

L'elocuzione dee esser chiara, ma non bassa. Maniere di conseguirla; ma non tutte da noi praticabili. Gli ornamenti, per esser lodevoli, debbono essere o parer necessarj. Ragioni del diletto, che produce la metafora. Che debbono esser parchi i poeti, a' di nostri, nel valersi delle licenze anche loro permesse ·

Passa ora a parlar dell' elocuzione, e dice

da maestro suo pari, che il pregio di essa consiste nell'esser chiara, e non bassa (1). Ha dato questo eccellente precetto Aristotile anche nella rettorica, dicendo che si toglie la bassezza, quando si compone eleggendo le parole fra quelle del dialetto consueto come ha fatto Euripide, il primo che ne ha dato l'esempio (2). Ma qui, nello spie

(1) Σaçñ » μn Tev vau. Aristot. Poet. Cap. XXII Tom. IV pag. 25.

(2) Κλέπτεται δ' ού ἐάν τις ἐκ τῆς εἰωθύας διαλέκτε ἐκλέγων συνηθῇ, ὅπερ Εὐριπίδης ποιεῖ, καὶ ὑπέδειξε

gare

il precetto, ci propone maniere d'eseguirlo non tutte da noi praticabili. Ei dice che quando è composta solo di parole proprie e comuni (1), che, come di sopra abbiam veduto, ha chiamate Orazio, a seconda del testo greco, nomi dominanti, essa diventa chiarissima, ma però bassa: e che, per renderla nobile, convien far uso di parole pellegrine, intendendo per pellegrine quelle, che si traggono dalle lingue straniere, o quelle che si rivolgono in metafora o quelle, che si accorciano poeticamente, o si allungano e di tutto ciò finalmente, che possa distinguerla dalla comune favella popolare. Avverte per altro i poeti di valersi discretamente di questi mezzi: perchè l'uso soverchio delle parole straniere potrebbe fargli urtare nel barbarismo: e quello delle continue metafore nella oscurità dell'enigma, che nasce per lo più dalla significazione metaforica e non propria, che si attribuisce alle parole. Raccomanda dunque che s'impieghino a proposito e con misura. Or la conoscenza di ps. Arist. Reth. Lib. III Cap. II Tom. III pag. 798 E.

(1) E'n τär nucíær övoμátær. Arist. Poet. Cap. XXII Tom. IV pag. 25.

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