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fore d'Eschilo, cioè: è venuto un uomo, che mi somiglia; non mi somiglia altri che Oreste; dunque Oreste è venuto (1). Ed aggiunge, non intendo per qual ragione, come una quinta specie di riconoscenza una, ch'ei chiama paralogismo teatrale (2); e ne toglie l'esempio da una tragedia perduta, nella quale un impostore asseriva di conoscere l'arco d'Ulisse, che mai non avea veduto: ed induceva gli spettatori in errore.

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Conclude che la migliore di tutte le sorta di riconoscenze è quella dell'Edipo di Sofocle; e l'altra dell' Ifigenia in Tauride d'Euripide perchè pajono naturalmente prodotte dal corso degli avvenimenti del dramma, e non dalla cura del poeta. Ed a quelle che si fanno per mezzo del raziocinio, dà il primo luogo dopo di queste.

(1) Ο'τι ὅμοιός τις ἐλήλυθεν· ὅμοιος δὲ ἐδεῖς, ἀλλ ̓ ἢ Ορέσης. ἔτος ἄρα ἐλήλυθεν. Arist. Poet. Cap. XVI p. 18 D.

(2) Ε'ςι δέ τις σύνθετος ἐκ παραλογισμό το θεάτρο. Aristot. ibidem.

Tomo XIV.

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CAPITOLO XVII.

Che il poeta, nel tessere la sua favola, si figuri di essere nel caso che finge. Che ne stenda intieramente la tela per avvedersi degl' inverisimili, che potrebbero sfuggirli. Non s'intende come da questa regola possa dedursi da Dacier quella della sofistica unità di luogo: nè perchè il popolo, secondo lui, non abbia da esser punto considerato e rispettato da ogni poeta. Peso del voto popolare. Difficoltà di mettere in uso la regola, che qui prescrive Aristotile d'incominciar sempre il suo lavoro dalla idea astratta dell' azione che vuol proporsi un poeta.

Vuole saviamente Aristotile che, nel tesse

re la sua favola, si figuri il poeta d'esser nel caso e nelle passioni, che vuol rappresentare: e sino al segno, che, immaginandole, le accompagni anche col gesto (1); essendo

(1) Οσα δὲ δυνατὸν, καὶ τοῖς σχήμασι συναπεργαζί. Mevov woleïv. Aristot, Poet. Cap. XVII. pag. 19. C.

certissimo che chi vuol commovere altri, conviene che abbia prima messo in moto sè

stesso.

L'uman sembiante imitator s'adatta

Al pianto, al riso altrui: se vuoi ch'io pianga, Piangi tu primo; e dal tuo duol trafitto Eccomi allor (1).

E vuole che per evitare tutti gl'inverisimili che potrebbero sfuggirli, si ponga innanzi gli occhi in iscritto l'intera tela del suo soggetto. Dall' omissione di questa regola crede cagionata la caduta d'una tragedia del poeta Carcino, intitolata l'Anfiarao: nella quale, aven do veduto tutti gli spettatori entrare in un tempio il suddetto Anfiarao, non poterono poi persuadersi ch'ei ne fosse uscito senza esser veduto da alcuno di loro, come pretendeva il poeta; onde, disapprovata da tutti, rovinò la tragedia.

Non saprei indovinare il fondamento, sopra il quale pretende Dacier che in questa debba essere inclusa quella della sofistica unità di luogo, della quale per altro è profondo

(1) Ut ridentibus arrident, ita flentibus adflent

Humani vultus: si vis me flere, dolendum
Primum ipsi tibi. Horat. Poet. v. 101.

altissimo silenzio e qui ed in tutta la Poetica d'Aristotile. Anzi, non potendosi su questo punto investigar la sentenza di lui, se non se per mere conghietture, parmi, come altrove si è detto, che non debba e non possa mai, intorno all'unità del loco, esser supposto Giansenista quel filosofo medesimo, che, rispetto all'unità del tempo, è Molinista scoperto. Ma pure il povero Cornelio è qui condannato da Dacier senza speranza di clemenza, a dispetto della universale approvazione di tutti i popoli: perchè Dacier definitivamente decide, nell' esposizione di questo Capitolo, che non già pel popolo debbono essere scritte le tragedie, ma unicamente per quei pochi, che sono illuminati della sua luce. E

pure il suo e mio gran maestro Aristotile asserisce, che si credeva a' suoi tempi esattamente il contrario; cioè, che per li dotti i poemi epici, e per gl' ignoranti i tragici si scrivessero (1).

Ma di questa stravagante opinione, intorno alle metafisiche unità, nata nel secolo passato

(1) Τὴν μὲν ἦν (οποποιίαν) περὶ τὰς θεατὰς ἐπιει· μεῖς φασιν εἶναι ... τὴν δὲ τραγικὴν πρὸς φαύλος ο Arist. Poet. Cap. XXVI.

dalla mente di qualche erudito critico, tanto eccellente in grammatica, quanto inesperto in teatro; ed il quale visibilmente non ha mai conosciuti i limiti di quel verisimile, a cui, a differenza delle copie, sono obbligate le imitazioni; di questa opinione, dico, incognita a tutti gli antichi maestri, non seguitata nè pure da un solo de' più comunemente applauditi poeti, e men che dagli altri, da quegli appunto istessi Greci, che si sogliono addurre, non so con quanta buona fede, in esempio; si parla diffusamente altrove, come la materia richiede.

Ma non si può qui lasciare senza risposta la perniciosa massima di Dacier, che per li dotti, e non pel popolo debbano scrivere i poeti; poichè questa sentenza, avvalorata dal meritato credito d'un uomo di così vaste cognizioni, come è certamente Dacier, bevuta con venerazione, de' poveri novizj di Parnaso, e creduta da loro infallibile; non solo li disvia dal vero cammino, ma li rende per sempre indocili agli avvertimenti dell' esperienza, che anche i meno avveduti pur finalmente corregge. E scrivendo essi poi a tenore di così falsi principj, se si veggon negletti, come d'ordinario avviene, e disprezzati

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