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resista all'esame, non sarebbe però mai inutile il precetto d' Orazio, sanamente spiegato. Dicendo egli che un quarto personaggio non laboret; cioè non si affanni, non si sforzi, non si affatichi a parlare; avverte figuratamente i poeti di non mettersi molto spesso, ed inconsideratamente in simil cimento. E la solidità di questo avvertimento è ben sensibile agli scrittori drammatici, che hanno esperimentato, operando, quanta cura, quanto artificio e quanta sperienza bisogna per sostenere il dialogo fra quattro o più personaggi, senza urtare o nell'ozio d'alcuni o nella confusione di tutti.

Prima di abbandonare questa materia, converrebbe esaminare, come ed a qual fine imitassero i cori coi moti loro, ora, procedendo a sinistra il giro del primo mobile, ora quello de' pianeti, rivolgendosi a destra, ed ora la stabilità della terra, rimanendo immobili. Ma della vaghezza e dell'utilità di coteste astronomiche rappresentazioni, o rinvenute negli antichi, o loro dagl' ingegnosi critici atribuite, giudichi ognuno a suo senno. A noi giova, a questo proposito, unicamente l'osservare, che tutto quello che cantava il coro, nel formar cotesti giri, prendeva nome

dal fatto, e chiamavasi strofa; cioè rivolgimento: antistrofe, cioè rivolgimento opposto; ed epodo, cioè aggiunta al canto. Che scrivendo il poeta coteste strofe, antistrofe ed epodi, cambiava i metri usati in tutto il resto della tragedia: abbandonava tal volta il jambo si valea degli anapesti e de' trochei, piedi più veloci e vivaci: e legava insieme un certo determinato numero di versi, adattato ad una particolare periodica cantilena, che con altre parole, ma con le misure e con le cadenze medesime potea più volte replicarsi che di cotesta più artificiosa musica, che avea preso il nome dai rammentati giri, non si valse poi il coro unicamente cantando solo, ma tal volta a vicenda con gli attori; e gli attori parimente tal volta scompagnati dal coro. E giova l'osservar finalmente che appunto di coteste cantilene determinate, che possono replicarsi con diverse parole, conservando le misure e le cadenze medesime, son composte tutte le odi e le canzoni e le canzonette in Italia, la quale ne conserva fedelmente e la forma ed il nome chiamandole tuttavia universalmente strofe e strofette. Or che altro son mai le ariette de' nostri drammi musicali, se non se

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le suddette antiche strofe? E perchè mai tan-. to si grida contro queste visibili e patenti reliquie del teatro greco? e da quei dotti medesimi che sempre ce ne raccomandano l'imitazione?

Ma chi vuole essere pienamente convinto delle enormi traveggole di coloro che in tuono tanto autorevole condannano, come disprezzabili invenzioni del teatro moderno, le nostre arie, duetti e terzetti, legga l'erudita e savia dissertazione, che si trova alla pagina 168 nel secondo de' due volumi, aggiunti alla ristampa in ottavo, fatta in Napoli il 1774 de' libri poetici della Bibbia, mirabilmente tradotti in metri italiani dal dottissimo siguore D. Saverio Mattei: e non solo troverà ivi gl' innumerabili passi del teatro greco, che convengono in ciò con la nostra presente pratica, ma vedrà ancora quanto ingiustamente alcuni critici francesi disapprovino l'uso delle comparazioni ne' nostri poemi drammatici: uso ostentato particolarmente da' Greci nelle tragedie e commedie loro, e sommini strato dalla natura, che suggerisce a tutti gli uomini il ripiego di ricorrere alle compara→ zioni ed alle metafore, che ne sono una specie, per esprimere i loro concetti con

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quella vivacità ed evidenza, della quale non è capace il proprio, semplice e positivo linguaggio vedrà di qual necessario sussidio priverebbe i poemi drammatici chi togliesse loro, come vuol d'Aubignac ed i suoi seguaci, le note in margine, che istruiscono i lettori delle circostanze, che non possono essere esposte che dalla rappresentazione, e che ignorate renderebbero l'azione inintelligibile, e vedrà varj altri paralogismi scoperti ne' nuovi canoni de' moderni maestri dalla illuminata perspicacia dello stesso signor D. Saverio Mattei: coi pareri del quale io mi trovo, senza esserne seco convenuto, perfettamente d'accordo in questo mio Estratto, il quale, benchè già da lungo tempo immaginato e disteso, si trovava tuttavia inedito appresso di me, nè poteva essere stato da lui per do veduto. Ed io reco a somma mia gloria la spontanea accidentale concordia de' miei co' pensieri di così insigne letterato, l'esatto ed incorrotto giudizio di cui non soggiace ad altra seduzione, se non se alla visibilmente eccessiva parzialità, di cui egli costantemente mi onora.

alcun mo

Tomo XIV.

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CAPITOLO XIII.

Qual debba essere il protagonista, secondo Aristotile. Dubbj di Pietro Cornelio. Decisioni di Dacier. Preferenza che dà 'Aristotile alle catastrofi funeste, benchè da molti, anche a suo tempo, disapprovate. Aristotile difeso da una apparente contraddizione.

Esposte le parti di qualità e di quantità è

deciso che la costituzione più bella d'una favola è l'implessa, cioè la ravvolta; passa a determinare in questo capitolo Aristotile qual debba essere il carattere del protagonista; affinchè sia atto ad eccitare la commiserazione ed il terrore, coi quali si purga ogni passione; e senza i quali non v'è dramma, a suo parere, che possa aspirar giustamente alla graduazione di tragico. Prescrive perciò che si scelga per protagonista un personaggio illustre, ma che non sia eccellente nè in malvagità, nè in virtù. Perchè il felice fine dello scellerato, che per altro fra i tragici greci è frequente, dispiace ad ognuno:

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