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ce che in questo difetto cadono per propria colpa i cattivi poeti: e che vi cadono tal volta i buoni per compiacenza per gli attori, quando, per dare occasione ad alcuno di essi di porre in uso qualche sua distinta abili tà, si diffondono più del bisogno, o trascu rano l'esattezza dell' ordine. Si avverte che cotesto motivo per cui s'inducono tal volta i buoni poeti a dilungarsi dalle regole loro ci vien suggerito da Aristotile come legittima scusa, quando nel Cap. XXV. ci provvede delle difese delle quali contro gli assalti de'critici possiam canonicamente valerci.

Dopo tanta indulgenza ritorna il nostro filosofo a' suoi rigori: ed inculca di bel nuovo, al pari dell' integrità delle favole, il ter rore e la compassione, (1) che vuol che da esse indispensabilmente si producano, come sorgenti di maraviglia, particolarmente quando giungono inaspettate. Della privativa efficacia, che attribuisce Aristotile a queste due sole passioni di purgarci da tutte le altre, si è già parlato diffusamente per l'innanzi, ed ingenuamente confessato fin dove io sia giun

(1) To poßepòv y exesov. Aristot. Poet. Cap. IX. Tom. IV. p. 11.

to ad intenderla. Onde passo a spiegar gli ultimi periodi di questo capitolo, degnissimi d'un tanto maestro. Ei dice dunque che l' inaspettato produce meraviglia e diletto; ma non già l'inaspettato casuale. Che l'inaspettato meraviglioso e dilettevole nasce dagli avvenimenti che lo spettatore non attendeva; ma nel vederli succedere si ricorda degli antecedenti a lui noti, ed è convinto che in conseguenza di quelli doveano necessariamente succedere. E che ancora l'inaspettato casuale può partecipar tal volta di questo vantaggio, quando lo spettatore ha motivo di attribuirgli qualche verisimile antecedente cagione: come successe in Argo, quando la statua d'un certo Mizio cadde per sè stessa inaspettatamente, ed uccise alla vista di tutto il popolo l'uccisore di quello. Accidente che parve ad ognuno non già prodotto dal caso, ma dalle regolate disposizioni di una giustizia superiore.

CAPITOLO X.

Divisione delle favole in semplici ed implicate. Spiegazione delle medesime. Che non è lo stesso il nascere una cosa dall' altra, e l'esser collocata una dopo un' altra cosa. Dimostrazione di questo assioma. Difesa di Cornelio.

Divide qui Aristotile le favole drammatiche

in semplici ed implicate: perchè tali sono in sè stesse tutte le azioni umane, delle quali sono imitazioni le favole. Ei chiama semplice quella, la quale è, siccome altrove ha definito, una e continua: e va al suo fine senza valersi nè di peripezie, nè di agnizioni, cioè di riconoscenze; e per implicata intende quella, che, per mezzo di riconoscenze o di peripezie, o delle une e delle altre insieme, procede e giunge al suo termine; purchè dalla costituzione medesima della favola sian esse dedotte in guisa che, in virtù degli antecedenti, compariscano sempre o verisimili o necessarie. E qui ci ricorda una utilissima distinzione da lui fatta anche altro

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ve, perchè non incorriamo in un sofisma, nel quale giornalmente per inavvertenza si cade cioè che non è lo stesso il nascere l'una da un'altra, o l'una dopo un'altra cosa (1); poichè in fatti è ben prodotto successivamente in un arbore dal tronco un' ramo, dal ramo un fiore, e da questo un frutto; ma non è così prodotta in un vocabolario l'una voce dall'altra; benchè sia l'una dopo l'altra successivamente disposta. Non trascura il nostro Dacier di meudicare anche in questo Capitolo le occasioni di riprender Cornelio, come fa in tutta la sua esposizione della Poetica d'Aristotile, e per lo più ingiustamente. Avea detto Cornelio, che le riconoscenze sono di grandissimo ornamento alle tragedie, ma d'un incomodo lavoro

al

poeta: e ne avea accennate le difficoltà ; ma Dacier decide, che le difficoltà delle riconoscenze non son quelle addotte da lui: e che l'unica difficoltà nasce dall' inabili tà del poeta, che, più atto a parlar con l'ingegno che col cuore, non sa spiegar

(1) Διαφέρει γὰρ πολὺ γίνεσθαι τάδε διὰ τάδε, ἢ Meta Táde. Arist. Poet. Cap. X pag. 12.

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le grandi passioni che dalle riconoscenze si destano.

Se fosse Dacier stato artefice prima di far da maestro, avrebbe esperimentato, come avea esperimentato Cornelio, che il dare al popolo tutte le molte per lo più antecedenti notizie, necessarie a rischiarar l'intrico, donde dee nascere una riconoscenza; il darle non tutte insieme, per non far che un poema drammatico degeneri in narrativo, per non annojare ed aggravar troppo la memoria dello spettatore, che malagevolmente potrebbe poi sovvenirsene al bisogno; l'andarne opportunamente suggerendo di tratto in tratto la parte necessaria allo schiarimento del prossimo incidente; il far che coteste non pajano istruzioni del passato, ma membri necessarj di quella particolare azione, che si sta attualmente rappresentando in teatro; e l'evitar soprattutto che non inciampi in alcuna di coteste necessarie istruzioni il corso di qualche passione già mossa, e così si rallenti e svanisca; oltre il considerabile imbarazzo di sfuggir la confusione, l'oscurità e l'inverisimilitudine nel rappresentare al popolo nel soggetto medesimo un vero ed un supposto personaggio, il quale, secondo le diverse sue

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