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dal rumor de' cani e de' cacciatori, uscisse dal suo nascosto covile uno smisurato cinghiale: che lo assali: ch'ei si difese: che lo uc

cise che ne restò ferito

:

che gli fu legata la piaga: che, trasportato in casa, fu diligentemente curato: e che, ristabilito, alfine fosse in Itaca ricondotto.

Questo non pare un accidente trascurato, come nè pure parrebbero necessarj nell' ultimo libro dello stesso poema i più che duecento esametri, che impiegano ne' loro colloquj le ombre de' Proci nell' esser condotte all' Erebo da Mercurio. E di tali, secondo la massima d'Aristotile non discretamente applicata, apparenti contraddizioni si troverebbero ad ogni passo non meno nell'Iliade, che nell'Odissea d'Omero. Egli, per eagion d'esempio, appunto nel Lib. VI dell' Iliade non teme di violare l'unità, facendo impiegare a Glauco e a Diomede più di 120 esametri, sul cominciare d'un combattimento, per raccontarsi a vicenda le genealogie e le imprese degli avi loro, che nulla conferiscono alla tela della sua favola. E dopo terminata nel Lib. XIX dell' Iliade, con una solenne riconciliazione, l'ira d' Achille contro Agamennone, soggetto del suo poema, non

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mostra nè pure verun timore di alternarne l'unità, continuando a cantare una seconda ira d'Achille contro l'uccisore di Patroclo: e quindi la morte e gli strazj di Ettore ed i prolissi funerali dell' amico, e poi quelli d'Ettore ancora ; cose tutte, che, omesse • non avrebbero punto scomposta, punto scomposta, non che distrutta la favola. Dunque, non volendo, come io non voglio, supporre difetti in Omero, nè contraddizioni in Aristotile, convien credere che un bel panneggiamento d'una statua, benchè possa essere omesso senza distruzione della medesima, ne divenga una legittima parte, purchè possano i riguardanti riconoscere sotto quel panneggiamento l'esatte proporzioni del nudo. A questa discretezza, necessaria nel far uso de' precetti universali, non è possibile il prescrivere una regola sempre sicura; perchè la richiedono sempre diversa le diverse circostanze delle imitazioni, che s'intraprendono. Onde non abbiamo assai spesso altre scorte che l'esperienza e soprattutto il buon giudizio, dono raro e gratuito della natura; del quale non tutti abbondano quei severi giudici, che così autorevolmente decidono. Ma di tutto ciò si è altrove lungamente parlato,

CAPITOLO IX.

Che i proprj doveri del poeta lo esentano da quelli dell' istorico. Ragioni insussistenti, che deducono da questo canone quei che sostengono che i romanzi in prosa sieno poemi. Che il discorso in versi, impiegato a qualunque uso, benchè non sia epico, o drammatico, non perde mai la qualità di poesia siccome mai non può acquistarla il discorso in prosa. L'arte del poeta è più filosofica di quella dello storico; perchè ha per oggetto le idee universali e l'altro le particolari. Inutilità per gli artefici delle troppo minute filosofiche ricerche. Non è necessa rio che sien noti i soggetti, che si scelgono; perchè non è considerabile il vantaggio, che con ciò si procura. Delle favole episodiche: perchè condannabili, e perchè tal volta scusabili. Dell' inaspettato; e sue differenze.

Avendo

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vendo parlato Aristotile nell' antecedente Capitolo dell' unità, dell'integrità e della connessione delle favole epiche e dramma

tiche; circostanze che di rado si trovan ne' fatti istorici, esposti come sono avvenuti; dice che da cotesti doveri del poeta, da lui qui sopra spiegati, si deduce che non è obbligato il poeta ad esser istorico: anzi che ha egli oggetto affatto da quello diverso; poichè l'oggetto dello storico, che non è imitatore, è solo il raccontar fedelmente gli eventi come sono accaduti: ma quello del poeta all' incontro è il rappresentarli come avrebbero dovuto verisimilmente e necessariamente accadere, l'uno derivando dall' altro. E che perciò il poeta epico e drammatico non differisce dello scrittor di storie nel solo metro. Poichè (dice egli) se si ponesse in versi la storia d'Erodoto, rimarrebbe,come era in prosa, sempre una specie d'istoria ancora in versi (1). Ma differisce ancora nel rappresentare i fatti quali avrebbero dovuto succedere, e non istoricamente quali sono essi succeduti.

Di questo aureo assioma del nostro filosofo, come di quello di Platone nel Fedone, dove, dice che se il poeta dee esser poeta, convien che componga favole e non

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(1) Εἴη γὰρ ἂν τὰ Ηροδότω εἰς μέτρα πέναι, κ ἐδὲν ἧττον ἂν ἔν ἱστορία τὶς μετὰ μέτρα ἢ ανα μέσ Tpwv. Aristot. Poet. Cap. IX. Tom. IV. pag. 10,

discorsi (1); e di alcun altro passaggio venerabile per l'antichità e crestito degli autori, ma torto in senso visibilmente assurdo, si sono valuti nel fine del passato secolo quei dotti critici, che han preteso di sollevare i romanzi in prosa alla graduazione di poemi; sentenza, che accomunerebbe ad Omero e Virgilio non solo i dialoghi di Platone, ma di Luciano, Apulejo e tutti i prosatori novellieri, perchè compositori di favole. Fin da bel principio ha pur detto Aristotile in questo trattato, che l'imitazione poetica si distingue dalle altre imitazioni; perchè si fa col discorso sottoposto alle leggi del metro,ed ornato di numero e d'armonia. E quando ha detto che l' epopea fa la sua imitazione con discorsi semplici τοῖς λόγοις ψιλοῖς, subito ha spiegato ciò che intendeva per discorsi semplici, soggiungendo, cioè coi soli metri

TOIS μÉTPOIS. E che quell' sia preso in senso di cioè, e non di o pure ha provato ad evidenza Pietro Vittorio con varj passi d'Aristotile medesimo: e con le assurde conseguenze,

(1) Ο'τι τὸν ποιητὴν δέοι, εἴπερ μέλλοι ποιητὴς εἶναι, Tolev μúdes, amoyes. Platon. Phaedo, Operum graec. latin. Paris. apud Henric. Steph. 1578, in folio, Tom. I. pag. 61. B,

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