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CAPITOLO VIII.

Dalla sola unità del nome d'un eroe non si produce l'unità dell'azione. Difesa di Stazio. Elogio che fa Aristotile d'Omero, al quale contraddirebbe il rigido in apparenza suo susseguente assioma intorno all'unità dell' azione, quando non venga discretamente interpretato .

Perchè sia una l'azione non basta che sia uno il protagonista: perchè siccome dei molti avvenimenti, che giornalmente veggiamo occorrere, non è tal volta possibile di formar l'unità d'una sola favola; così le molte e diverse azioni d'un sol personaggio hanno bene spesso sì poca relazione fra loro, che non soffrono d'esser congiunte senza violazione della richiesta unità. Quindi, dice Aristotile, hanno manifestamente errato coloro, che, proponendosi di cantar tutte le imprese d' Ercole o di Teseo, han creduto che il titolo di Teseide o d'Eraclide, disegnando l'unità dell' eroe, fosse sufficiente a conservar l'unità del poema. Or qui il certamente dot

tissimo Dacier, su le tracce di Pietro Vittorio, che seguita, ma non cita, si scaglia spietatamente contro di Stazio per la moltiplicità del soggetto dell'Achilleide. Dice che questi non avea letta la Poetica d'Aristotile, nè Omero nè Virgilio, e che, se avea letto questi ultimi, non ne avea punto compreso l'artifizio. Non fa il minimo conto delle tante conosciute bellezze poetiche, che si trovano nelle selve di cotesto Autore: nè di quelle, che nella Tebaide gli hanno procurato gli applausi asseriti da Giovenale. Si corre ai carmi e alla gioconda voce Dell'amica Tebaide, allor che lieta Fè Stazio la città col dì promesso: Dolce così sono i legami, ond' egli Gli animi annoda: e con si vivo e tanto Desiderio e diletto ognun l'ascolta. (1) Anzi armato il Dacier di tutto l'autorevole rigore del critico inesorabile Areopago, senz ammettere alcun compenso di pregi e di di

(1) Curritur ad vocem jucundam et carmen amicae Thebaidos, laetam fecit cum Statius urbem, Promisitque diem. Tanta dulcedine captos Afficit ille animos, tantaque libidine vulgi Auditur

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Juvenal. Sat. VII v. 82.

fetti, lo condanna irrevocabilmente a far numero fra la turba de' cattivi poeti.

Continua quindi Aristotile a dimostrare il difetto della moltiplicità dell'azione con l'esempio d'Omero: il quale, dice egli, anche in questo, come in tutto il resto, superiore ad ogni altro, ha saputo o per scienza dell' arte, o per felicità di natura e conoscere ed evitar questo scoglio: non facendo entrar nell' Odissea tutti gli avvenimenti d' Ulisse, come la ferita da lui ricevuta da un cinghiale sul monte Parnaso, nè la pazzia, che finse per non andare alla spedizione di Troja: perchè cotesti avvenimenti non procedono o verisimilmente o necessariamente l'uno dall' altro; onde così nell' Iliade, come nell' Odissea non si è valuto che di cose relative all'azione principale. Dice di più che ogni imitatore, sia egli pittore, statuario o di qualunque altra sorte sorte, elegge sempre una azione sola per l'imitazione che intraprende e che, essendo la tragedia imitazione di qualche azione, conviene che anche questa sia ed una ed intiera: e che le sue

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parti siano di tal maniera connesse, che trasponendone, o togliendone una sola, tutto si cambj e si distrugga. E termina fi

nalmente il Capitolo con la ripetizione del suo favorito assioma.

Tutto quello, che può mettersi, o togliersi, senza che ne sia visibile l'eccesso, o la mancanza, non è mai parte d'un tutto. (1)

Tutte le massime universali, quanto sono splendide all'udirsi, tanto sono difficili e bisognose di discretezza e d'esperienza nell'applicarle ai casi particolari. Se questo luminoso assioma dovesse essere inteso senz' alcuna modificazione, all'uso dei per lo più tanto dotti, quanto inesperti critici, condannerebbe Aristotile il suo infallibile Omero in questo Capitolo medesimo, nel quale, esaltandolo sopra ogni altro, lo propone per esempio del suo rigido qui sopra citato assioma dell' unità. E lo esalta appunto per aver, dice egli, trascurati tutti gli altri accidenti occorsi ad Ulisse, che non sono membri necessarj dell'azione principale: e nominatamente la ferita da quello ricevuta da un cinghiale sul monte Parnaso. Or nel libro decimonono dell' Odissea non solo non trascura 0

(1) Ο γὰρ προσὸν ἢ μὴ προσὸν, μηδὲν ποιεῖ ἐπίσ Sunov, & de pó Tó is. Aristot. Poet. Cap. VIII

Tom. 4. p. 10.

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mero l'accidente della ferita; ma ne forma un minuto e disteso racconto di più di settanta esametri. Era necessario, lo so, per render verisimile la riconoscenza di Ulisse, d'informare il lettore, che era nota alla sua vecchia nutrice Euriclea la cicatrice di cotesta ferita; ma nulla mancherebbe di necessario all'integrità dell'azione, se Omero, dopo aver brevemente detto che non la ignorava Euriclea, avesse trascurato di narrare a lungo che Autiloco, avo materno d'Ulisse, fosse venuto dal Parnaso in Itaca al natale di lui: che gli fosse stato deposto su le ginocchia, appena nato, dalla nutrice Euriclea: che Autiloco gli avesse imposto il nome: che cresciuto Ulisse andasse a visitar l'avo nelle sue case che fosse ivi ricevuto con tenere accoglienze e da lui e dalla sua consorte Anfitea, bellissima quando era giovane, e da' figliuoli di questa: che se gli apprestasse un lauto banchetto, pel quale si uccise un bue di cinque anni: che, tagliato in varj pez-. zi, fu in molti spiedi arrostito: che andasse ognuno dopo la cena a dormire: che il di seguente fosse condotto su l'aurora ad una caccia nel monte Parnaso, tutto ingombrato di selve, dove il vento fremeva: che eccitato

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