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CAPITOLO IV.

Che la naturale inclinazione degli uomini alla imitazione ed al canto sono le prime origini della poesia. Prove di questa sentenza prodotte da Aristotile riguardo all'imitazione: e prove da lui trascurate, forse perchè non credute necessarie riguardo alla musica. Differenze fra l'imitazione e la copia, che ignorate producono dannosissimi sofismi. Necessità indispensabile del canto per parlare ad un pubblico. Se debba credersi sentenza d'Aristotile che introdotto da Sofocle il terzo personaggio fosse giunta la tragedia alla sua perfezione.

Asserisce

Asserisce in questo capitolo da suo pari Aristotile che l'inclinazione degli uomini all' imitazione ed alla numerosa armonia, cioè alla musica, ed il diletto, che ne ritraggono sono le naturali cagioni che han prodotta la poesia.

Per provare che gli uomini nascano inclinati all'imitazione, a differenza di tutti gli altri

animali, ci fa osservare, come avea già osservato Platone nel l. 3. della Repubblica, e come ha poi confermato Cicerone nel lib. II. de Oratore, che l'istruzione de' fanciulli si fa tutta visibilmente per mezzo dell'imitazione fin dai primi elementi: e per prova incontrastabile del diletto, che in noi generalmente produce, ci fa riflettere a quello, che tutti sentiamo nel riguardare oggetti orribili eccellentemente imitati, cioè forme d'animali i piu selvatici, θηρίων μορφὰς τῶν ἀγριοτάτων (come legge Heinsio) o forme d'animali vilissimi τῶν ἀτιμοτάτων ( come legge Pietro Vit torio) uomini moribondi, o cadaveri: che insoffribili agli occhi nostri nel vero, giungono in virtù d'una meravigliosa imitazione ad esser cagion di piacere.

Vuol che le sorgenti di questo piacere siano l'innato desiderio d'imparare, comune a tutti gli uomini, non che ai filosofi: e l'interna compiacenza, che tutti abbiamo della nostra perspicacia, quando riconosciamo il vero nel falso, che l'imitazione ci presenta: ambizioso diletto del nostro amor proprio, che noi ritroviamo egualmente nelle metafore e nelle allegorie, perchè ci somministrano occasioni d'esser contenti di noi medesimi

ritrovandoci abili a scoprire il senso vero nel figurato, che lo nasconde.

L'avidità d'imparare è visibile in quella de' fanciulli nell'ascoltar racconti favolosi.

È la compiacenza della nostra perspicacia sensibile ad ognuno nel riconoscere l'originale d'un oggetto imitato, senza che altri gliel suggerisca.

Ma perchè non si può riconoscere un og getto del quale non si abbia avuta antecedentemente l'idea, avverte Aristotile che se mai (per supposto metafisico) potesse un pittore aver preso ad imitare originali, de' quali lo spettatore non avesse nè in genere, nè in ispecie alcuna idea antecedente: il piacere, che si ritrarrebbe dal rimirar l'opra di lui, non potrebbe nascere dalla imitazione, ma sarebbe allora unicamente prodotto dalla propria bellezza de' mezzi dal pittore impiegati; cioè dalla artificiosa mistura e vivacità de' colori, o da qualunque altra allettatrice circostanza della sua pittura.

Dopo avere Aristotile prolissamente provata l'inclinazione degli uomini all'imitazione, parrebbe che dovesse impiegar la stessa cura a dimostrar quella ch'essi hanno alla musica; essendo, secondo il suo solidissimo sistema,

queste nostre due naturali e dilettevoli inclinazioni le cagioni produttrici della poesia: ma egli ha ragionevolmente creduta già nota a tutti, indubitata e visibile questa seconda inclinazione, e perciò non bisognosa di dimostrazioni: onde gli è bastato asserirla. Ed in fatti chi mai potrebbe dubitar dell'efficacia della musica su gli animi nostri? Chi mai non ne prova e non ne osserva gli effetti ed in sè stesso, e in altrui? Chi non s'avvede che la nostra violenta inclinazione la chiama a parte di tutte le azioni umane? Nel culto de' sacri tempj, nelle adunanze festive, nelle pompe funebri e fin tra i furori militari vogliam sempre che abbia considerabil luogo la musica. La conoscono, e se ne compiacciono le più barbare, le più rozze e le più selvagge nazioni: la sentono in fasce, benchè non atti ancora al perfetto uso de' sensi, i più teneri bambini, e cessan per essa da'pianti loro: il reo nel tetro suo carcere, lo schiavo fra le catene e l'affanno del suo faticoso lavoro, cerca un sollievo, e lo ritrova nel canto. Sente fra i piè sonarsi i ferri, e canta. (1)

(1) Crura sonant ferro, sed canit inter opus • Tibull. Lib. II. Eleg. VII. v. 8.

Va ben più oltre ancora il sagace ed acuto Castelvetro: ei sostiene che non la nostra sola inclinazione ed il diletto, che la musica ne cagiona, l'abbia resa compagna e produttrice della poesia; ma una essenziale, fisica, indispensabile necessità. Ecco il suo argomento incontrastabile, che ha per altro bisogno d'una minuta spiegazione per essere ben compreso. Il poeta, o narratore, o drammatico o di qualunque specie egli sia, parla sempre ad un pubblico: non si può da un pubblico essere inteso, se non si sostiene più dell'usato, e non si spinge la voce con impeto molto maggiore di quello che s'impiega comunemente parlando: la voce più lungamente sostenuta e spinta con questa insolita forza diventa più rigida e meno flessibile: ed entra in un sistema di progressioni infinitamente diverso da quello del parlar naturale: e diverso a tal segno, che mercè i più lunghi e più sensibili intervalli delle sue progressioni, se ne può facilmente scrivere il suono ed il tempo con le usate nostre note musicali: ma per quanto in Francia, ed altrove si sia tentato, non è riuscito fin ora ad alcuno di scrivere i tempi ed i suoni del parlar naturale perchè gl'intervalli progressivi

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