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non mai da lor praticata. E pure eruditissimi critici, degni di rispetto per le infinite loro cognizioni, adottano paradossi così irragionevoli. Tanto è vero che i naturali difetti del nostro giudizio non si correggono dalla dottrina: anzi si rendono per lei sempre più visibili e grandi. Se fosse stata men vasta la portentosa suppellettile letteraria del celebre Padre Arduino, e di non pochi altri, per gl'istessi motivi, e stimabili al par di lui, e riprensibili critici, non si sarebbero dilungati a tal segno da' giusti limiti del ragionevole comune discernimento. Ma ogni linea, che solo alcun poco dalla sua parallela declini, tanto sempre più se ne allontana, quanto altri più la produce.

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Termina Aristotile questo primo capitolo 'della sua Poetica facendo nuovamente riflettere che la poesia si vale nelle sue imitazioni del metro, del numero e dell' armonia: talvolta insieme come avveniva ne' ditirambi e ne'nomi, che cantavansi in onor di Bacco e d'Apollo: e tal volta or separati, or congiunti, come succedeva nelle tragedie e nelle commedie: nelle quali nei diverbj ( che sono i nostri recitativi ) si ubbidiva alla sola legge del metro: e ne' cantici, strofe, anti

strofe ed epodi, o cantati da tutto il Coro, o da un solo istrione, si faceva uso anche del numero e della melodia: come appunto a' di nostri, e ne' moderni cori, e nelle strofe, che chiamansi ora ariette, per immemorabile, e visibilmente a noi dall' antico teatro tramandato costume universalmente si pratica.

Nè solo armonico e numeroso convien che sia (a creder mio) il discorso, che impiega il poeta imitatore, ma puro insieme, nobile, chiaro, elegante e sublime. Non si vale mai

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esperto statuario per le grandi sue imitazioni del tufo, o d'altri fragili come questo ed ignobili sassi; ma costantemente sempre de più eletti marmi e più duri: ed il savio poeta egualmente (quando il principale oggetto, ch'ei si è proposto, non sia per avventura qualche bassa, giocosa o scurrile imitazione) elegge ed adopera sempre ne' suoi lavori cotesta colta, elevata, incantatrice favella, capace di cagionar diletto con le sole sue proprie bellezze, ancor che non fosse imitatrice d'altro che del natural discorso: e prende il difficile impegno di obbligarla a servir sempre alle sue imitazioni: e di non abbandonarla mai, benchè tal volta costretto ad esprimere le cose più umili e più comuni. Onde se

poi per correr dietro al maggior verisimile, ad onta dell'impegno già preso, egli avvilisce lo stile; cade nell'error puerile d'uno sconsigliato scultore che, per dare alle sue statue maggior somiglianza col vero, s'avvisasse di colorirne il marmo, o le fornisse d'occhi di

vetro.

La favella sempre grande, sempre ornata, e sempre sonora di Virgilio e di Torquato han riportata fin ora e riporteranno eternamente la maggior parte de'voti, mercè quel difficile, e perciò mirabile uso, che hanno essi saputo farne nell'imitar la natura. E che che dicano, o abbiau saputo dire molti de' nostri per altro eruditissimi critici, per farci venerare come esquisiti tratti di maestra imitazione le frequenti bassezze, le negligenze, le ineguaglianze, le mancanze d'eleganza e d'armonia, e la fastidiosa copia delle licenze, che s'incontrano in alcuni, eccellenti nel resto, così moderni, come antichi poeti; non giungerà mai a costringere il buon senso universale a compiacersi degli errori, nè a contar fra i pregi i difetti.

CAPITOLO II.

Dei diversi oggetti delle imitazioni. Difficoltà di decidere che abbia voluto intendere Aristotile dividendo i caratteri imitabili in migliori, peggiori e mezzani.

Spiega Aristotile in questo secondo capito

lo la seconda differenza, per la quale le imitazioni si distinguono fra loro. E questa vuol che nasca dalla differenza delle cose, che prendonsi ad imitare. Volendo (dice egli ) imitar uomini, conviene imitarne le azioni, per le quali appariscono le virtù ed i vizj loro: quindi gli oggetti dell'imitazione sono o i migliori o i peggiori di noi, cioè del comune degli uomini, o quelli che a noi rassomigliano. Asserisce che questi tre diversi gradi di migliore, peggiore o simile, cioè mezzano, possono darsi in ogni specie d'imitazione. E non solo ne' componimenti ne' quali si valgono i poeti di tutti gli ornamenti della poesia, come ne' ditirambi e ne' nomi; ed in quelli ne' quali non s'impiegano se non se le parole sottoposte al solo metro,

come sempre avviene nell' epopea, e di trat to in tratto ne' drammi; ma nel ballo ancora, ed in tutte le arie della tibia, della lira e di qualunque altro istromento sonoro. Poichè ne' racconti, che s'introducevano ne'ditirambi e ne' nomi, potevano esser visibili le tre proposte differenze. Omero ed i tragici, secondo Aristotile, imitano i migliori: i comici e gli scrittori di parodie imitano i peggiori: e v'era chi imitava gli uomini quali essi so

come asserisce che faceva un poeta ateniese, detto Cleofonte, non so se epico o tragico ed ogni ballo finalmente ed ogni aria di qualunque stromento ha il suo proprio, o nobile, o mezzano o basso carattere. Or, dalla maniera con la quale Aristotile si esprime, pare indubitato che coteste differenze di migliori, peggiori o simili debbano secondo lui esser considerate a proporzione delle virtù, o de' vizj delle persone rappresentate. Per la malvagità e per la virtù differiscono tutti i costumi fra loro; (1) ma gli esempi ch'ei ne propone, non lo confermano. Ei dice che i tragici ed Omero imi

(1) Κακίᾳ γὰρ καὶ ἀρετῇ τὰ ἤθη διαφέρεσι πάντες Arist. Poet. Cap. II. T. IV. p. 2.

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