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ad essi buon amico. Abbominava per altezza d'animo; non che l'adulazione e l'infingimento, una troppa timida dissimulazione; chè però fu sempre e con tutti schiettissimo; nè alcuno ebbe mai che delle schiette sue parole, comechè talvolta men grate, si adontasse; tanto ad ognuno era chiaro che non da malignità procedevano, ma da rara ingenuità di maniere. Nel conversare, com'era faceto di natura, riusciva piacevolissimo. E così non si foss' egli negato al desiderio di molti, come molti avrebbonlo voluto delle loro brigate; ma egli, in grazia de' suoi studj e degli ecclesiastici suoi doveri, troppo amava il raccoglimento. Pure quando un'onesta condiscendenza traevalo dal suo ritiro, sapeva usare co' minori senza orgoglio, cogli uguali senza soperchieria, co'grandi senza viltà.

«Le troppo gravi fatiche ed il soverchio dispendio di voce, fecero che il Benelli contraesse una tisi tracheale, la quale, man mano progredendo, condusselo al letto di morte. Due mesi vi durò con eroica pazienza, tutto consolandosi in Dio in capo ai quali, chiesti, e ricevuti più volte gli estremi ajuti della Chiesa, incontrò tranquillo e sicuro la morte. Onorevoli furono l'esequie di lui, onorevoli le accompagnature alla Chiesa ed al cimitero: onorevolissimo è pel defunto l'universale compianto e la voce, che ancor in Parma si ascolta, che la sua morte sia una publica calamità. >>

II. LUCCA. Abate GIOVANNI MICHELE

VANNUCCI

In Cardoso, villaggio del Ducato Lucchese, nacque il Vannucci da civili ed onesti genitori il dì 26 Settembre dell'anno 1774. Compito l'anno duodecimo dell'età sua, fu ricevuto nel Seminario Arcivescovile di Lucca, ov'ebbe a maestro di belle Lettere l'abate Cristoforo Martelli Leonardi, soggetto ragguardevole e molto nominato a' suoi tempi, sì per varie produzioni in prosa ed in versi, edite ed inedite, come pel metodo suo d'istituire i giovani nella eloquenza e nella poesia, e d'istillare in essi il più purgato gusto dell' idioma latino. A maestro di Filosofia ebbe l'abate Gio. Michele Adami buon latinista ed allievo del celebre Jacopo Bacci (*).

(*) A lode del Seminario suddetto, giovi qui recare una bella testimonianza del ch. Lucchesini nel Ragionamento preliminare della sua Storia Letteraria del Ducato Lucchese, ove dopo aver nominato alcuni di que' dotti Rettori, così prosegue: « Dottissimo fu Jacopo Bacci che lo stesso magistero supremo tenne dal 1742 fino al 1758. E meritano pure alcuna lode e il Landi e il Ghelardi, che in tempi a noi più vicini moderarono quel Seminario. Sotto il reggimento di questi uscirono da quelle fiorentissime scuole parecchi uomini illustri, fra i quali piacemi di ricordare or solamente i due fratelli Castruccio e Filippo Buonamici, e fra questi specialmente il secondo, che dopo avervi appresi i primi rudimenti vi fu eletto a maestro, e tenne la cattedra della eloquenza e della poesia finchè non si portò a Roma a procacciarsi la dignità prelatizia. A lui ė prima al Bacci debbono forse queste scuole una certa celebrità nello scrivere latinamente, e in modo speciale nel seguitare le orme di Cicerone. E questa celebrità fu tanta che i nostri nobili giovanetti, che entravano al collegio Lucchese in Bologna mentre vi era maestro il Ghedini, questi nel loro primo esame, se scorgeva che in quella lingua scrivendo dessero secondo l'età saggio di purità e d'eleganza, ne traeva argomento che alle scuole del Seminario fossero ammaestrati. È da sperarsi che sì fatti esempj servan di sprone per conservar questa gloria, e ai posteri tramandarla ».

Era nel Seminario un'Accademia denominata de' Gemini, nella quale venivano ammessi que' giovani alunni e convittori che più valevano nello studio delle belle lettere e delle scienze; e quest' aggregazione fruttava loro il godimento d'onorevoli privilegi. Il Vannucci vi fu ammesso pochi anni dopo il suo ingresso nel Seminario, avendo subito con molta lode il rigoroso scrutinio, al quale erano sottoposti i giovani candidati. Soddisfece sempre con plauso alle diverse incombenze scientifiche e letterarie, delle quali erano frequentemente incaricati gli accademici; e si avanzò fino a conseguire il supremo grado di Principe o Presidente dell' Accademia.

Nell'anno 1795 essendo studente di Teologia Dogmatica, si espose a difendere pubblicamente 60 Tesi alla presenza dell'Arcivescovo, e di molti professori e letterati della città; e riportò da tutti approvazione e lode non ordinaria. Due anni appresso, fu posto Prefetto di una camerata del Seminario; e nel tempo che esercitava un tale uffizio, occupò ancora lodevolmente la cattedra di eloquenza, supplendo per alcuni mesi alla mancanza dell'ordinario Professore, impedito da infermità.

Qualche anno dopo fu richiesto dalla nobil famiglia Boscoli di Parma per l'educazione, ed istruzione di teneri giovinetti. L'Arcivescovo di Lucca Filippo Sardi, di onorevol memoria, il quale avea fondate sul Vannucci molte belle speranze, soffriva di mal animo ch'egli si allontanasse dalla sua Chiesa: pure per condiscendere alle molte instanze che gli venivano fatte da parecchie rispettabili persone, acconsentì che partisse; ma volle che prima gli promettesse e si obbligasse espressamente di ritornare, quando i bisogni della sua Diocesi lo avessero consigliato a richiamarlo.

L'andata a Parma aperse al Vannucci una carriera di nuovi studj. Era egli riuscito per modo, nello scrivere versi latini alla maniera di Catullo, che s'era fatto nella sua patria un nome, il quale dura tuttora, benchè da tanti anni ne fosse assente. Eguali progressi non potè fare nella

lingua italiana, perchè di que' giorni, colà come altrove, o non s'insegnava, o s'insegnava in modo pessimo. Pure egli non aveva trascurato questo studio, e in alcune raccolte stampò versi e prose, che per essere scritte a quel tempo, sono comportabili. Se egli però cominciò a sentire non poco avanti nella lingua, lo dovette (e lo diceva egli stesso a tutti) all'abate Colombo, col quale strinse amicizia grande nell'occasione di sua dimora in Parma per l'uffizio sovraccennato. E qui colle parole medesime d'un amico ed estimatore del Vannucci, diremo che « sussidiato dai consigli « di quel profondo conoscitore delle più riposte grazie di « nostra favella, e d'altri uomini valenti e per dottrina e « per senno, egli rifece in allora con maggior posatezza i « suoi studj, e si diede ad un esame più attento del patrio «< idioma, notando con accuratezza e filosofia l'origine e i << progressi di esso nei principali scrittori che in diversi << tempi lo illustrarono. Le maggiori sue cure furono volte « agli scrittori del trecento, come quelli che primeggiano « per aurea, incorrotta, saporitissima purità, per efficace, ani« mata, chiara, sugosa breviloquenza. Invaghitosene quant' « altri mai, si diede a far tesoro di quelle voci, e a ren« dersele e proprie e connaturali. >>

Nel 1811, si trasferì a Milano, ove dopo due anni gli fu dal marchese Febo d'Adda affidata l'istruzione de' proprj figli. A tal cura dedicossi il Vannucci per tutti i quindici anni che gli rimasero ancor di vita; e potè nel tempo stesso applicarsi a' prediletti suoi studj, nella pace e comodità della sua stanza presso quella illustre e riconoscente famiglia. Egli si rendeva ogni giorno più benemerito delle buone lettere ed accetto agli estimatori della modesta virtù, quando la morte venne a rapirlo il dì 30 ottobre del 1829 in Arcora, paese della Brianza, dov' egli villeggiava da qualche settimana, dopo il suo ritorno da' Bagni di Lucca. Egli non contava che 55 anni; e questa perdita immatura lasciò gli amici di lui pieni di rammarico e desiderio. Noi pure ne fummo assai contristati, sì per le testimonianze che avevamo di sua cortese benevolenza, sì per la mancata speranza d'altri

ben condotti lavori che aspettar potevamo da questo filologo diligentissimo.

Fu dotato il Vannucci di tutti i pregi che si convengono a buon Sacerdote. Di che delicata coscienza egli fosse, puossi argomentarlo dal fatto seguente. Avendo esso nell'ultimo soggiorno in patria, fatto stampare il Volgarizzamento di Ruth, pregò il Direttore di quel Collegio ad ajutare il tipografo col prendere qualche esemplare di quell'opera ad uso degli alunni. Essendogli poi, nel giorno appresso, venuto in mente che in certa nota eravi un passo per giovinetti non abbastanza castigato, non si diede pace finchè non ebbe trovato il suddetto Direttore, e rivocata la sua preghiera, dicendogliene liberamente la ragione. Tali erano le sue maniere, che bastava aver seco trattato una volta per affezionarglisi. Parea nato per render servigio non solo agli amici, ma a tutti che ne lo richiedevano, anzi ancora a chi non ne lo richiedeva: nè guardava a fatica o a spesa che talvolta gli potesse costare. Se poi s'abbatteva ad un giovine disposto a riuscire ne' buoni studj, tosto se gli faceva amico, e gli era largo di consigli e di libri, non solo in prestito, ma ancora in dono, e procurava di farlo conoscere, e procacciavagli onori e vantaggi. Amava la conversazione dei costumati e gentili, e specialmente di letterati. Nella brigata era lieto, quanto però ad uom di Chiesa si conveniva. Si guardava di non offendere alcuno, non solamente a fatti, ma nè pure a parole. Insomma era uno di quegli uomini, al quale Orazio non avrebbe avuto difficoltà di dare il titolo di ottimo.

Il Vannucci pubblicò nel 1825 in Milano, per Cristoforo Rivolta, la Leggenda di Tobia e Tobiola, testo inedito del buon secolo della lingua. Non è questo libro un volgarizzamento, come sono altre Leggende pubblicate da altri con titolo simile a questo, ma uno scritto originale, in cui narrasi dall'autore ciò che nel libro di Tobía si contiene. Il savio editore lo diede in luce sulla speranza che la lettura di esso contribuisse ad istillare negli animi ancora teneri de' suoi illustri allievi bei principj di virtù, e insieme la

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