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CV LO

WOBJE

DI CATONE

ELEGIA

POICHÈ fu il

capo al gran Pompeo reciso, E che in Cesare sol concorse intero Quel poter che in due parti era diviso, La forza egli spiegò del proprio impero Su l'Africo superbo è sul Britanno, E sul Partico suolo e su l'Ibero:

E a Roma, ancor piena di grave affanno,
Fu forza alfin la disdegnosa fronte
Sotto il giogo piegar del suo tiranno.
Fin nell'estremo là del Tauro monte,
Che coll'alta cervice al ciel confina,
Rese le genti al suo comando pronte.
Ma non poteo perciò l'alma divina
Mai soggiogar di quel Romano invitto,
Con cui morì la libertà Latina :

Il qual poichè restò vinto e sconfitto
L'infame Tolomeo che contendea
Alla bella Cleopatra il pingue Egitto,
I mesti giorni in Utica traea,
Ove ripieno il cor di patrio affetto,
Di Pompeo l'aspro fato ancor piangea.
Nè per timor che gli nascesse in petto

Ivi n'andò, ma sol perchè fuggia
Della Romana servitù l'aspetto.

E poichè udì che s'era già per Cesare posto, e con armate genti Verso l'arene d'Utica venia,

via

Volse e rivolse i suoi pensieri ardenti;
Indi chiamato il suo diletto figlio
Questi spinse sul labbro arditi accenti:
A te lice schivare il tuo periglio;

Onde

per ottener pace e salvezza Che a Cesare ne vada io ti consiglio. Ma la mia mente a rigettarlo avvezza Oggi non dee lasciar suo genio antico, Che l'ingiusta potenza abborre e sprezza. E ben degg'io di libertade amico Meno la morte odiar di quella vita Che ricever dovrei dal mio nemico.

Tu vanne, o figlio, ove il destin t'invita Che ciò che all' opre tue sarà virtute, Sarebbe infamia per quest'alma ardita; La qual non dee, con dimandar salute, Di Cesare approvar l'ingiusta voglia Ch'altrui morte minaccia o servitute.

Nè tanto apprezzo questa frale spoglia, Ch'abbia a legar per dimorare in lei, Quel libero desio che in me germoglia. Ne del nome Roman degno sarei, Se, giunto alfin di dieci lustri orinai, Non finissi costante i giorni miei. ›

Io, che ho del viver mio già scorso assai, So ch'incontrar quaggiù l'uomo non puote Che interrotte dolcezze e lunghi guai.

Mentre scioglica la lingua in queste note Piangeva il figlio, è con afflitto volto Tenea nel genitor lę luci immote.

Ed egli intanto a un servo suo rivolto,
Recami il ferro, disse. Il figlio allora
Scosse il pensiero in cui stava sepolto,

E forte grida: Ah non recate ancora
Il ferro, o servi; e tu, padre pietoso,
Interponi al morir qualche dimora.
Catone il torvo ciglio e generoso
Ver lui rivolse, e dal turbato core
Trasse questo parlar grave e sdegnoso.
S'oggi non v'è per me scampo migliore,
Che debbo attender più! che giunga forse
E mi trovi sua preda il vincitore?

A tutti allor dagli occhi il pianto scorse,
Al figlio, a' servi ed agli amici insieme,
Di cui già folta schiera ivi concorse;
I quai coll' esca di novella speme
Tentavano ritrar l'animo atroce
Dal duro incontro delle doglie estreme.
Ma quel cui nè dolor, nè tema nuoce,
Sorger lasciò sovra le labbra un riso,
Che serenò l'aspetto suo feroce;

E, rimirando i mesti amici in viso,
Disse: Deh qual dolor v'occupa il seno,
E sul volto vi corre all'improvviso?
Forse vi duol ch'io sciolga all'alma il freno
Perchè, scorrendo poi sicuramente,
Possa goder la libertade appieno?

E volando nel ciel rapidamente,
Svelta d'ogni mortal tardo legame,
Ritorni al giro dell'eterna mente;
Dove spogliata delle folli brame
Miri per la serena e pura luce
De' grandi eventi il varïato stame?

Ah! che quell'alma cui ragione è duce, Non può giammai temer di quella morte Che al destinato fin la riconduce:

Anzi ella sempre l'aspre sue ritorte Romper si sforza, in cui si trova oppressa, E sempre aspira alla celeste sorte. Onde, quando la strada è a lei permessa D'uscirne fuori, alla sua sfera sale, Riducendosi pria tutta in se stessa. Nè teme di perir qual cosa frale, Nè può perir se non ha parte alcuna, Ma è pura, indivisibile e immortale. Si rompa or la dimora a me importuna: Arrecatemi, o servi, il ferro avante, Pria che parta dal ciel la notte bruna. Allora un servo con la man tremante Portògli il fiero acciaro, ed egli il prese Intrepido negli atti e nel sembiante. Ma Labien che di pietà si accese, Andiam prima di Giove al tempio, disse, Acciocchè il suo voler ti sia palese. Caton pria nel pugnal le luci fisse, E la punta tentò se fosse dura, Poi di sua bocca tal favella udisse: Forse colà nelle sacrate mura Chieder dovrem, se bene opri colui Che ad ingiusto poter l'anima fura? S'eterno sia ciò che si chiude in nui, E se contra la forza e la potenza Perda punto virtude i pregi sui?

Ciò ben sappiam che la divina Essenza, In cui tutti viviamo, a nostre menti Già del vero donò la conoscenza.

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