DI CATONE ELEGIA POICHÈ fu il capo al gran Pompeo reciso, E che in Cesare sol concorse intero Quel poter che in due parti era diviso, La forza egli spiegò del proprio impero Su l'Africo superbo è sul Britanno, E sul Partico suolo e su l'Ibero: E a Roma, ancor piena di grave affanno, Il qual poichè restò vinto e sconfitto Ivi n'andò, ma sol perchè fuggia E poichè udì che s'era già per Cesare posto, e con armate genti Verso l'arene d'Utica venia, via Volse e rivolse i suoi pensieri ardenti; Onde per ottener pace e salvezza Che a Cesare ne vada io ti consiglio. Ma la mia mente a rigettarlo avvezza Oggi non dee lasciar suo genio antico, Che l'ingiusta potenza abborre e sprezza. E ben degg'io di libertade amico Meno la morte odiar di quella vita Che ricever dovrei dal mio nemico. Tu vanne, o figlio, ove il destin t'invita Che ciò che all' opre tue sarà virtute, Sarebbe infamia per quest'alma ardita; La qual non dee, con dimandar salute, Di Cesare approvar l'ingiusta voglia Ch'altrui morte minaccia o servitute. Nè tanto apprezzo questa frale spoglia, Ch'abbia a legar per dimorare in lei, Quel libero desio che in me germoglia. Ne del nome Roman degno sarei, Se, giunto alfin di dieci lustri orinai, Non finissi costante i giorni miei. › Io, che ho del viver mio già scorso assai, So ch'incontrar quaggiù l'uomo non puote Che interrotte dolcezze e lunghi guai. Mentre scioglica la lingua in queste note Piangeva il figlio, è con afflitto volto Tenea nel genitor lę luci immote. Ed egli intanto a un servo suo rivolto, E forte grida: Ah non recate ancora A tutti allor dagli occhi il pianto scorse, E, rimirando i mesti amici in viso, E volando nel ciel rapidamente, Ah! che quell'alma cui ragione è duce, Non può giammai temer di quella morte Che al destinato fin la riconduce: Anzi ella sempre l'aspre sue ritorte Romper si sforza, in cui si trova oppressa, E sempre aspira alla celeste sorte. Onde, quando la strada è a lei permessa D'uscirne fuori, alla sua sfera sale, Riducendosi pria tutta in se stessa. Nè teme di perir qual cosa frale, Nè può perir se non ha parte alcuna, Ma è pura, indivisibile e immortale. Si rompa or la dimora a me importuna: Arrecatemi, o servi, il ferro avante, Pria che parta dal ciel la notte bruna. Allora un servo con la man tremante Portògli il fiero acciaro, ed egli il prese Intrepido negli atti e nel sembiante. Ma Labien che di pietà si accese, Andiam prima di Giove al tempio, disse, Acciocchè il suo voler ti sia palese. Caton pria nel pugnal le luci fisse, E la punta tentò se fosse dura, Poi di sua bocca tal favella udisse: Forse colà nelle sacrate mura Chieder dovrem, se bene opri colui Che ad ingiusto poter l'anima fura? S'eterno sia ciò che si chiude in nui, E se contra la forza e la potenza Perda punto virtude i pregi sui? Ciò ben sappiam che la divina Essenza, In cui tutti viviamo, a nostre menti Già del vero donò la conoscenza. |