D. JUNI I
JUVENALIS
SATYRA III
UAMVIS digressu veteris confusus amici, Laudo tamen vacuis quod sedem figere Cumis Destinet, atque unum civem donare Sibyllae. Janua Bajarum est, et gratum litus amoeni Secessus: ego vel Prochytam proepono Suburrae. Nam quid tam miserum, et tam solum vidimus,
Deterius credas horrere incendia, lapsus. Tectorum assiduos, ac mille pericula saevae Urbis, et augusto recitantes mense Poetas?
Sed dum tota domus rheda componitur una, Substituit ad veteres arcus, madidamque Capenam:
Hic,ubi nocturnae Numa constituebat amicae: Nunc sacri fontis nemus, et delubra locantur Judaeis, quorum cophinus, foenumque supellex.
BENCHÈ afflitto al partir d'un vecchio amico, Del mio diletto Umbricio, approvo e lodo Che ad abitar la desolata Cuma,
Che a far sen vada alla Sibilla il dono D'un nuovo cittadin. Cuma è la porta Che guida a Baja; amena spiaggia è Cuma, Atta a un grato ritiro: ed io prepongo Anche Procida a Roma. E in ver che mai Tanto infelice, abbandonato tanto Veder si può, che peggior mal non sia Temer gli incendi, impallidir de'tetti All' assidue ruine, a tanti rischi Della città trovarsi esposto, e al folle Cicalar de' Poeti a'giorni estivi?
Or sopra un carro sol la casa intera Componean dell'amico: ed egli intanto Fra gli archi antichi e l'umida Capena Meco si trattenea. Quei luoghi (oh Dei!) Ove Numa solea prescriver l'ora De' lor congressi alla notturna Amica; Quei tempj delle Muse, e di quel sacro Fonte le ombrose piante ora in affitto Dansi a Giudei, di cui l'aver consiste
Omnis enim populo mercedem pendere jussa est Arbor, et ejectis mendicat sylva Camoenis. In vallem Egeriae descendimus, et speluncas Dissimiles veris. Quanto praestantius esset Numen aquae,viridi si margine clauderet undas Herba, nec ingenuum violarent marmora to- phum?
Hic tunc Umbricius: quando artibus, inquit, honestis
Nullus in Urbe locus, nulla emolumenta labo
Res hodie minor est here quam fuit, ac eadem
Deteret exiguis aliquid; proponimus illuc Ire, fatigatas ubi Doedalus exuit alas: Dum nova canities, dum prima et recta sene-
Dum superest Lachesi quod torqueat, et pedi
Porto meis, nullo dextram subeunte bacillo. Cedamus patria: vivant Arturius istic, Et Catulus: maneant qui nigrum in candida vertunt,
Queis facile est aedem conducere, flumina,
Siccandam eluviem, portandum ad busta ca
Et proebere capui domina venale sub hasta. Quondam hi cornicines, et municipalis arenae Perpetui comites, notaeque per oppida buccae,
In una cesta e poco fieno. Un tronco Non sorge là, che al popolo Romano Non paghi il suo tributo; onde in esiglio Le Muse or van dalla mendica selva.
Nella valle d'Egeria, in quelle grotte Poco simili al ver scendemmo. Oh quanto Più presente saria dell'acque il Nume, Se con un verde margine chiudesse L'erba quell'onde, e non facesse oltraggio Al tufo natural marmo straniero!
Già che ormai non rimane all' arti oneste (La Umbricio incominciò) più luogo in Roma, Nè mercede al sudor; che oggi di jeri Più corto è il patrimonio, e questo poco Dimani ancor si scemerà; risolvo Andarmene colà dove le penne Dedalo si spogliò. Finchè comincio Appena a incanutir, finchè non giunge A incurvarmi l'età, finchè del mio Stame a filar resta alla Parca, e fermo Sopra i miei piè, senza baston, mi reggo; La patria abbandoniam. Vivano in essa Catulo, Arturio: vi rimangan quelli Che il bianco in nero a trasformar son atti: Che a tor sopra di sè facili sono
Fabbriche ad innalzar, dazi a raccorre Di porti e fiumi; a disseccar pantani; Funerali a condurre; e al caso estremo Pronti ad abbandonar, senza ritegno, Del lor capo venal l'arbitrio all' asta. Costoro, un dì ne' rustici teatri Assidui sonatori, e per le ville
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