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TRADUZIONE

DELLA SATIRA III

DI

GIOVENALE

42

D. JUNI I

JUVENALIS

SATYRA III

UAMVIS digressu veteris confusus amici, Laudo tamen vacuis quod sedem figere Cumis Destinet, atque unum civem donare Sibyllae. Janua Bajarum est, et gratum litus amoeni Secessus: ego vel Prochytam proepono Suburrae. Nam quid tam miserum, et tam solum vidimus,

ut non

Deterius credas horrere incendia, lapsus.
Tectorum assiduos, ac mille pericula saevae
Urbis, et augusto recitantes mense Poetas?

Sed dum tota domus rheda componitur una, Substituit ad veteres arcus, madidamque Capenam:

Hic,ubi nocturnae Numa constituebat amicae: Nunc sacri fontis nemus, et delubra locantur Judaeis, quorum cophinus, foenumque supellex.

TRADUZIONE

DELLA SATIRA III.

DI GIOVENALE

BENCHÈ afflitto al partir d'un vecchio amico,
Del mio diletto Umbricio, approvo e lodo
Che ad abitar la desolata Cuma,

Che a far sen vada alla Sibilla il dono
D'un nuovo cittadin. Cuma è la porta
Che guida a Baja; amena spiaggia è Cuma,
Atta a un grato ritiro: ed io prepongo
Anche Procida a Roma. E in ver che mai
Tanto infelice, abbandonato tanto
Veder si può, che peggior mal non sia
Temer gli incendi, impallidir de'tetti
All' assidue ruine, a tanti rischi
Della città trovarsi esposto, e al folle
Cicalar de' Poeti a'giorni estivi?

Or sopra un carro sol la casa intera
Componean dell'amico: ed egli intanto
Fra gli archi antichi e l'umida Capena
Meco si trattenea. Quei luoghi (oh Dei!)
Ove Numa solea prescriver l'ora
De' lor congressi alla notturna Amica;
Quei tempj delle Muse, e di quel sacro
Fonte le ombrose piante ora in affitto
Dansi a Giudei, di cui l'aver consiste

Omnis enim populo mercedem pendere jussa est
Arbor, et ejectis mendicat sylva Camoenis.
In vallem Egeriae descendimus, et speluncas
Dissimiles veris. Quanto praestantius esset
Numen aquae,viridi si margine clauderet undas
Herba, nec ingenuum violarent marmora to-
phum?

Hic tunc Umbricius: quando artibus, inquit, honestis

Nullus in Urbe locus, nulla emolumenta labo

rum,

Res hodie minor est here quam fuit, ac eadem

cras

Deteret exiguis aliquid; proponimus illuc
Ire, fatigatas ubi Doedalus exuit alas:
Dum nova canities, dum prima et recta sene-

ctus,

Dum superest Lachesi quod torqueat, et pedi

bus me

Porto meis, nullo dextram subeunte bacillo.
Cedamus patria: vivant Arturius istic,
Et Catulus: maneant qui nigrum in candida
vertunt,

Queis facile est aedem conducere, flumina,

portus,

Siccandam eluviem, portandum ad busta ca

daver,

Et proebere capui domina venale sub hasta. Quondam hi cornicines, et municipalis arenae Perpetui comites, notaeque per oppida buccae,

In una cesta e poco fieno. Un tronco
Non sorge là, che al popolo Romano
Non paghi il suo tributo; onde in esiglio
Le Muse or van dalla mendica selva.

Nella valle d'Egeria, in quelle grotte
Poco simili al ver scendemmo. Oh quanto
Più presente saria dell'acque il Nume,
Se con un verde margine chiudesse
L'erba quell'onde, e non facesse oltraggio
Al tufo natural marmo straniero!

Già che ormai non rimane all' arti oneste
(La Umbricio incominciò) più luogo in Roma,
Nè mercede al sudor; che oggi di jeri
Più corto è il patrimonio, e questo poco
Dimani ancor si scemerà; risolvo
Andarmene colà dove le penne
Dedalo si spogliò. Finchè comincio
Appena a incanutir, finchè non giunge
A incurvarmi l'età, finchè del mio
Stame a filar resta alla Parca, e fermo
Sopra i miei piè, senza baston, mi reggo;
La patria abbandoniam. Vivano in essa
Catulo, Arturio: vi rimangan quelli
Che il bianco in nero a trasformar son atti:
Che a tor sopra di sè facili sono

Fabbriche ad innalzar, dazi a raccorre
Di porti e fiumi; a disseccar pantani;
Funerali a condurre; e al caso estremo
Pronti ad abbandonar, senza ritegno,
Del lor capo venal l'arbitrio all' asta.
Costoro, un dì ne' rustici teatri
Assidui sonatori, e per le ville

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