Mandane, e Megabise. Quella sua amante, questi suo amico, lo credon reo della morte di Serse, nè egli può discolparsi per non accusare Artabano suo padre, uccisore del monarca: ARBACE E non v'è, chi m'uccida? Ah Megabise MEGA BISE Non parlarmi. ARBA CE MANDA NE Involati da me. Ah principessa! ARBA CE Ma senti, amico.. MEGA BISE Non odo un traditore. MANDANE E non ti credo, indegno. E non mi credi? E finalmente facciam riflessione a quello d' Achille in Sciro, in cui l'eroe contrasta_fra l'amore e la gloria; cioè fra Deidamia che lo vuol trattenere e Ulisse che vuol farlo partire. Vedendolo la principessa già risoluto, gli dice: Pensi! non parli! E fisse Tieni le luci al suol! A CHILLE Che dici, Ulisse ? ULISSE Che, signor di te stesso, Puoi partir, puoi restar: che a me non lice Che a partir ti risolva, o parto solo. Ulisse aspetta. La medesima strettezza di dialogo si osserva sempre nelle altre tragedie del nostro poeta, qualora o la narrativa, o la passione non l'obblighino a prolungarlo, ma in qualunque caso è sempre vero, che nelle cose drammatiche in verun' altra lingua non può più serrato trovarsi. Come dall'eleganza e dalla proprietà delle voci impiegate nel dialogo dal nostro poeta nasce questa precisione, così da essa deriva la maestà dello stile e l'energia delle sentenze che racchiude, le quali rimangono così più facilmente impresse nella memoria: ottenendo il tragico quel principalissimo fine di giovare insieme e dilettare, tanto da' maestri dell'arte raccomandato, e così da Orazio lasciato scritto: Aut prodesse volunt, aut delectare poetae, vitae, Quidquid praecipies, esto brevis; ut cito dicta Percipiant animi dociles, teneantque fideles. Due riflessioni da non ommettere in proposito della strettezza del dialogo mi si affacciano alla mente: una risguarda l'interesse, ch' egli, a mio parere, più vivo rende nella nostra tragedia: appertiene l'altra al nostro recitativo musiche sul dialogo appunto si raggira. Ponderiamole separatamente. co, i Non v' ha dubbio, che quei dialoghi ne' quali personaggi declamano una notabile quantità di versi, avanti che gli altri rispondano, dilatando il corso dell'azione la snervano e l'infiacchiscono. Egli è visibile, che in que' prolungati discorsi ne' quali il poeta vuol far brillare il suo spirito, e l'eloquenza sua, l'azione si addormenta. Non sarò io il primo ad attribuire il vizio del troppo dilatato dialogo alle tragedie de' poeti Francesi, molte delle quali sembrano piuttosto composte per quelle lunghe tirate di versi che le riempiono, che per la favola che rappresentano. Ora intanto che la mente degli spettatori è tesa in ascoltare quello che si declama, facilmente le fugge quello che si fa, e con gran pena si rimette poi sul cammino. La parte principalissima della tragedia essendo l'azione e non la declamazione, quella dominar deve perpetuamente: a quella hanno da sagrificarsi tutti i voli dell'ingegno, tutte le vaghe immaginazioni d' una brillante fantasia, per non cadere in quel notabilissimo difetto del Pulchrum est, sed non erat hic locus. Ben potrei dimostrare, che nelle tragedie Francesi questo difetto procede dall'esser troppo lunghe, per la semplicità che comunemente nell' azione si osserva: ma questa semplicità dell'azione per altro lodevolissima (abbenchè l'implicata meglio piacesse agli antichi, e sia di gusto de' più accorti critici, e d'un celebre tragico Francese, che per gloria ed ornamento della sua patria ancor vive, ancora nell'estrema età con tanto splendore sulla scena si mostra) questa semplicità, io dico, degenera in vizio, quando nella necessaria continuazione di cinque atti non possa essere aggiustatamente distribuita. Potrei far osservare, che molte delle loro più belle tragedie hanno delle lacune considerabilissime d' azione colla declamazione riempite: che quelle, l'azione delle quali è più implicata, come l'Eraclio di Cornelio, non sono più lunghe delle al |