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sima ritornare (179). E questo fatto è importante nella storia, poichè per esso il papa inorgogli, e voll mostrare non solo la sua supremazia sugl' imperadori, ma eziandio che questi erano vassalli di lui, secondo la dottrina del feroce Ildebrando. E perciò in seguito si procurò di eternare un tal fatto, rappresentando nelle stanze lateranensi in un gran quadro il detto imperadore in atto di ricevere la corona dalle mani del romano pontefice; e nel medesimo quadro si scrissero questi versi:

Rex venit ante fores, jurans prius urbis honores;

Post homo fit papae recipit, quo dante, coronam (180).

Lotario dovette però partirsi da Roma senza potere scacciare Anacleto; e morto costui, gli fu surrogato Vittore IV per opera specialmente di Ruggero re di Puglia. Ma allorchè Vittore vide che il partito d'Innocenzo, il quale in questo caso procurò quietare anche i suoi nemici per mezzo di molto danaro, cresceva; e che il suo diminuiva; contentatosi pur esso di un forte regalo ricevuto per le mani del suo emulo, depose il papale ammanto, e liberò per sua parte pur egli Innocenzo da ogni fastidio (181).

Ma se questo pontefice restò libero dagli antipapi, non per questo potè dominare tranquillo in Roma. Imperciocchè i cittadini di questa città, parte perchè, memori dell'antica grandezza, vergognavansi della misera condizione in cui eran caduti ; parte perchè i continui scismi politici e religiosi avevano scandalezzato gli animi; parte perchè lo spirito d'indipendenza esistente nelle altre provincie limitrofe era loro di eccitamento alla rivolta; parte perchè le teorie di Arnaldo da Brescia erano di già penetrate in Roma; allorchè Innocenzo credeva di poterli senza contrasto dominare, insorsero a libertà. E il moto ebbe causa

dal fatto seguente.

Finchè i Romani tennero la parte d'Innocenzo II, gli abitanti di Tivoli seguitarono quelle di Anacleto; nel 1142 un

esercito romano preceduto dalla scomunica del papa, pose l'assedio in questa piccola città, ma per una improvvisa sortita dei Tiburtini rimase sconfitto. Nell'anno seguente i Romani avidi di vendetta; assediarono di nuovo Tivoli, e lo ridussero agli estremi. Avevano in animo di smantellarla e distribuire in diversi borghi i cittadini. Il pontefice più moderato e più saggio, fece una pace con i Tiburtini ad eque condizioni, volendo principalmente che giurassero obbedienza alla Chiesa, come se gli avesse sottomessi colle sue armi e non con quelle dei Romani. I seguaci delle dottrine di Arnaldo, e quanti amavano la libertà in Roma, si approffittarono or dunque del risentimento che in tutti destava questa pace, e promossero una sedizione (182).

In quell'epoca, il consiglio comunale di Roma dicevasi senato; dieci elettori di ciascuno dei tredici rioni della città, in ogni anno sceglievano cinquantasei senatori. Questi giudicavano delle cause civili; le maggiori e le universali spettavano al pontefice o al suo vicario, ed all'imperadore, o al vicario di lui, ossia al prefetto della città, il quale rilevava l'autorità propria in certa guisa dal papa a cui faceva omaggio, ma dall'imperadore riceveva la spada sguainata, siccome insegna di sua dignità (183). I sediziosi or dunque salirono al Campidoglio riformarono questo senato, e scacciando il prefetto, stabilirono in suo luogo un altro magistrato chiamato il Patrizio, il quale doveva presiedere il senato; ed inoltre, richiedendo tutte quelle franchigie che credevano necessarie, volsero la mente a libere aspirazioni. Il fatto fu serio, ed Innocenzo nello stesso anno ne mori di dolore (184).

Gli successe Celestino II, ma questo pure dopo pochi mesi mori. Sali allora sul seggio pontificio Lucio II di propositi più sfrontati ed arditi del suo predecessore; ma non per questo gl'insorti perderono la fede. Che anzi corroborandosi in questa, atterrarono molte case fortificate e torri da guerra de' cardinali

e de' nobili del partito contrario; e cacciarono di città vari personaggi di esso; e di più, vedendo che Lucio non voleva condiscendere alle loro pretese, si rivolsero all' imperadore Corrado III, proferendo ad esso il trono e la sede degli antichi imperadori.

Nella lettera scritta a Corrado, e conservataci da Ottone di Frisinga, i Romani dopo aver fatto qualche lagnanza sul silenzio da lui serbato, e sulla poca premura che ei sembrava dimostrare verso di Roma; e dopo averlo esortato a valicare le Alpi e a venire a ricevere dalle loro mani la corona imperiale; lo supplicarono a non disdegnare la sommessione loro e a non ascoltare le accuse di quelli i quali dipingevano il senato siccome nemico del trono imperiale. « Sire, eglino dicevano, il papa e il Siciliano hanno stretto un empia lega tra loro; vogliono opporsi alla nostra libertà e alla vostra coronazione. << Il nostro zelo e il nostro coraggio, grazie all'Altissimo, hanno << finora respinto il loro tentativo; noi abbiamo preso d'assalto <«<le case e le fortezze delle famiglie potenti, e sopratutto dei

«

Frangipani che si diedero a questi nostri nemici. Abbiamo << soldati in alcune di queste rocche; altre ne abbiamo spianate. <«< il ponte Milvio che essi avevano rotto, essendo per nostra << opera stato ristaurato e munito, vi offre un varco. Il vostro « esercito può senza tema di essere molestato dalla parte di << Castel Santo Angiolo, introdursi nella città. In tutto quanto << operammo fin qui, e in tutto quanto siamo per operare, non << avemmo scopo fuori della gloria e del servigio vostro, non << dubitando noi che fra poco verrete voi stesso a ricuperare i diritti usurpati dal clero, a ricuperare la dignità imperiale, « e a superare in rinomanza e in splendore tutti i vostri pre<< decessori. » E dopo essersi così espressi, conchiudevano mostrandogli il loro programma in cinque versi, che volgarizzati dicono così:

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<< Il re sia il ben venuto, ottenga sopra i nemici tutto ciò << che desidera;

<< Si abbia l'impero, segga in Roma, governi il mondo; << Siccome fece Giustiniano il principe della terra;

<< Cesare si abbia ciò che è di Cesare; ed il vescovo ciò

<< che è suo;

<< Siccome comandò il Cristo, mentre Pietro pagava il tri<< buto (185). »

Queste furono presso a poco le frasi che i Romani adoperarono nella lettera scritta a Corrado; ma sembra che essa non partorisse alcun buon effetto; poichè egli si rise di queste lusinghiere proposte e rivolse invece i suoi sguardi alle imprese di Palestina. Ed è perciò che il pontefice Lucio, preso maggiore ardimento, risolvette di abbattere assolutamente l'insurrezione romana, e non ebbe difficoltà in un bel giorno del mese di febbrajo 1145 di avanzarsi con una banda di armati verso il Campidoglio per discacciare il senato ivi raccolto. Ma imprudenza fu questa che gli costò la vita; poichè non appena lo stolto appressossi al sacro monte, colpito da uno dei sassi lanciatigli per parte degli avversari, dovette in terra cadere, di mortale ferita (186).

Morto lui, fu due giorni dopo eletto clandestinamente papa dai cardinali Eugenio III, già allievo di S. Bernardo. Ad esso allora i Romani, fatti più baldanzosi dalla rotta data a Lucio, si rivolsero, e gli fecero comprendere che eglino avrebbero annullata la sua elezione, se egli non riconosceva il senato, e l'eletto patrizio, e non rinunziava al Governo temporale di Roma. Eugenio III, siccome quegli che non voleva cedere a queste pretese, e nello stesso tempo temeva il furore degl' insorti, avute queste proposte, di notte uscì di Roma con alcuni cardinali, e ritirossi a Monticelli; e quindi con tutti i cardinali si trasferi a Farfa, per esservi consacrato. E di quà andò poi nelle

piazze forti dello Stato romano per far guerra ai rivoltosi; mentre questi fermi nei loro propositi venivano ogni dì più rinvigoriti nel proprio ardore dalla voce feconda di Arnaldo Bresciano.

Questo benemerito cittadino italiano, nato a Brescia nel principio del secolo XII; dopo essersi reso monaco e mostrato ben presto ardito novatore, predicando la riforma del clero, cui egli voleva ricondurre alla primitiva purezza, e dopo essere andato soggetto a tutte quelle persecuzioni, a cui sono per lo più esposti i banditori del vero; condottosi in Roma in sul principio del pontificato del suddetto Eugenio, sia per proprio zelo, sia per esservi stato chiamato da alcuno dei Romani stessi; rafforzò coi propri discorsi il partito repubblicano, ed esaltò vieppiù quelle menti già abbastanza esaltate e sdegnose.

Egli insegnava pubblicamente che dovea riconoscersi tutta la podestà spirituale del papa; che questi era il primo pastore della cristianità, ed il giudice delle cause ecclesiastiche; ma che non doveva interessarsi di quel Governo temporale che aveva tanto a cuore. Ed esortava perciò il senato ed il popolo romano non solo a restar saldi nell'impresa, ma ancora a rimettere in piedi le antiche costumanze della romana repubblica, l'ordine equestre e il plebeo, le antiche leggi, ed il Campidoglio (187).

In seguito di ciò Eugenio III non potè quasi mai stare in Roma, e sol verso la fine della sua vita potè dimorarvi, dopo aver fatto un accordo per cui ristabiliva il prefetto, ma lasciava sussistere il patrizio ed il senato (188).

Morto lui dopo un pontificato di otto anni e quattro mesi, gli fu sostituito Anastasio IV, il quale fu obbligato pur egli a vivere lontano da Roma. Ma questi non avendo avuto che mesi cinque di pontificato, andò sulla cattedra pontificia Adriano IV di nazione inglese. Costui più crudo e più ambizioso dei suoi predecessori, si pose in capo di vincere assolutamente i rivoltosi e

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