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meno insulare per eccellenza, il quale collega la Corsica con la Sardegna e con la Sicilia, ma pur con la Liguria. S'aggiunge, prevalentemente nella sezion meridionale, l'-i per l'-e toscano (latti latte, li cateni le catene), che si ritrova pure nel sardo meridionale ed è comune alla Sicilia. Superfluo poi dire, che queste differenze invalgono, più o men decisamente, anche nell' interno dei vocaboli. Alieno anche il côrso dai dittonghi dell'è e dell'o (pe, eri; cori, fora); ma, a differenza del sardo, tratta all' italiana l' e ľú: beju bibo, péveru piper; pesci; noci nuces. È caratteristico del côrso il ridursi l'a ad e nella formola AR+ conson. (chérne, bérba, ecc.), dove andrebbe specialmente confrontata la corrente emiliana del fenomeno stesso (v. Arch. II 133, 144-50). Ma nel gerundio in -endu della prima conjugazione (turnendu, lagrimendu, ecc.), deve all'incontro trattarsi di fenomeno analogico, come in ispecie si riconosce pei dialetti sardi, a tutti i quali è comune (v. Arch. II 133). E così sarà molto probabilmente anche delle forme di participio presente come merchente mercante, malgrado enzi e innenzu (anzi, innanzi), nelle quali forme può aversi l'effetto dell'i neo-latino che valse a ridurre il t del lat. ante, e accanto alle quali trovo anche anzi e nantu. — Nel côrso meridionale, è cospicuo il dr per LL, fenomeno che pur esso connette la Corsica con la Sardegna, la Sicilia e buona parte dell'Italia continentale del mezzodi (v. C, 2; e Arch. II 135 ecc.). Un sagace osservatore (FALCUCCI) afferma proprj di alcuni filoni del côrso meridionale anche i fenomeni di RN in nn e ND pure in nn; ma non ne dà esempj. Il primo di codesti fenomeni rannoderebbe in particolar modo la Corsica con la Sardegna (corru cornu, carre carne, ecc.); il secondo, con la Sicilia ecc., e anche non è estraneo alla Sardegna (v. Arch. II 142-3). Quanto ai fenomeni fonetici d'ordine sintattico, di cui s'è toccato in B, 2, qui basti citare rapidamente questo pajo d'esempj côrsi: na vella una bella, e bella (ebbélla et bella), lu iallu lo gallo, gran ghiallu; cfr. Arch. II 136 (135 150).

L'-óne, come già ha notato il TOMMASEO, è desinenza diminutiva pei Côrsi, non meno che pei Francesi; p. e. fratedronu fratellino. Nella prima del condizionale si mantiene il b (p. e. farebe farei), com'anche avviene a Roma e altrove. Finalmente, la serie de' verbi corsi d'ordine derivativo, che si contrappone alla serie italiana d'ordine schietto e può rappresentarsi coll'esempio dissipe

ghja dissipa (FALCUCCI), andrà confrontata con la serie siciliana di cui sono esempj: cuadiári ris-caldare, curpiári colpire, Arch. II 151.

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3. Dialetti di Sicilia e delle provincie napolitane. - Incominciamo dal considerare unitamente i territorj di qua e di là dello stretto di Messina, con l'intenzione precipua di avvertirvi i caratteri comuni. Caratteristica di queste regioni, in confronto dell'Alta Italia, e anche della Sardegna, è, generalmente parlando, la tenacità degli elementi esplosivi delle basi latine (cfr. Arch. II 154 ecc.). Non già che codeste consonanti si mantengano costantemente illese; le loro digradazioni, e in ispecie la digradazione napolitana di sorda in sonora, sono anzi ben più frequenti che la scrittura non soglia mostrare; ma il dileguo è relativamente assai raro; e anche le digradazioni, sia per le congiunture in cui intervengono e sia per la specifica lor qualità, ben si discostano da quelle che occorrono ne' dialetti dell'Italia Superiore. Così il T, fra vocali, suole apparire incolume nel siciliano e nel napolitano (p. e. sicil. sita, nap. seta, seta; dove ne' dialetti dell' Alta Italia si avrebbe seda sea); e si riduce ne' dialetti napolitani a d, quando gli preceda n o r (p. e. viende vento; che è appunto una congiuntura dove nell' Alta Italia il T si manterrebbe incolume). Il D, dal canto suo, non si risolve in quanto si elida, come avvien nell'Alta Italia, ma in quanto si riduce a r (p. e. sicil. vírire, dial. napolitani veré, vedere), fenomeno che più volte è stato confrontato, forse non abbastanza cautamente, col d in rs (d) delle iscrizioni umbre. La riduzione napolitana, che testè ci occorreva, di NT in nd, ha le sue analogie nella riduzione di NC (nk) in ng e di MP in mb, che è degli stessi dialetti napolitani, e pure in quella di Ns in nź; anzi si arriva, qua e colà, anche alla riduzione di NF in mb (nf nv nb mb), così in Sicilia come nel Napolitano (p. e. a Casteltermini, Sicilia: 'mbiernu inferno, e negli Abruzzi: cumbonn', 'mbonn', confondere, infondere). Qui siamo a quella serie di fenomeni, alla quale può parere che dieno qualche speciale contributo anche l'osco e l'umbro (NT MP NC in nd ecc.), ma per la quale poi offrono analogie più sicure e generali, e quasi si direbbe isotermiche, il greco moderno e l'albanese. Il siciliano, del resto, non vedo che vi si adatti per quello che è delle Archivio glottol. ital., VIII.

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formole NT e MP (piuttosto si accompagnerebbe al napolitano per RT in rd); e anzi contrasterebbe a questa tendenza col ridurre ch'esso fa di Né in nć (p. e. půnciri pungere). Ma anche per il passar di suono sonoro in sordo, i dialetti napolitani darebbero alla loro volta delle vene particolari e importanti (nè il siciliano è limitato a quella di cui ci avvenne di toccare), tra le quali dobbiam qui restringerci a rammentare quella del D tra vocali in t, nell'ultima dello sdrucciolo (p. e. ummetto umido). Dalle quali correnti di suoni sonori in sordi, vien pure una impronta particolare a' dialetti del mezzodì. Caratteristica affatto comune è poi la continua assimilazione d'ordine progressivo, per cui ND si riduce a nn, e MB a mm, e anche Nv a mm ugualmente (nv nb mb nm); p. e. sicil. Šínniri, nap. šénnere, scendere, sicil. chiummu, nap. chiumme, piombo, sicil. e nap. 'mmidia invidia. In ordine a questi fenomeni, è proprio alla mano l'analogia paleoitalica (ND in nn n), per la quale s'ha speciale evidenza dall'umbro. Altra gran caratteristica comune è il ridursi di PJ BJ FJ a ć (kj), ý, š (cfr. ૐ il genov., s. B, 1); onde p. e. sicil. chianu, nap. chianę, piano (plano pljano pjano), sicil. sićća, nap. sećća sepia; sicil. raģģa, nap. arragga, rabbia, sicil. šuri (ćuri), nap. šore, fiore. - Anche è da notare quella tendenza all'esito sibilante di CE CI per la quale ci limitiamo a citare il sicil. jazzu ghiaccio e il nap. lízetę lecito (v. Arch. II 149), tendenza che ricorda in particolar modo l'Alta Italia. È inoltre comune la propensione a espungere vocal palatina iniziale disaccentata e alla prostesi dell'a, in ispecie dinanzi a r (propensione questa seconda, che s'incontra anche nel sardo meridionale ecc., Arch. II 138); p. e. sicil. 'nténniri, nap. 'ndénnere, intendere; sicil. arricamári, nap. aragamare, ricamare (v. Arch. II 150). In pieno contrasto con la tendenza a scempiare le consonati geminate, che in ispecie si notava pel veneziano (C, 1), qui s'entra in quella gran sezione dell'Italia, dove invale la tendenza a geminare; e il napolitano va più là che non faccia il siciliano (esempj: sicil. doppu dopo, 'nsemmula insieme in-simul; nap. dellecato delicato, úmmeto umido, débbole). Quanto ai fenomeni fonetici d'ordine sintattico (v. B, 2), basti qui citare dalle parlate siciliane: nišuna ronna nessuna donna, allato a c'é donni c'è donne; cincu jorna cinque giorni, allato a chiú ghiorna più giorni; e dal napolitano: la vocca la bocca, allato ad a bocca a

bocca ad-buccam ecc. Or passiamo senz'altro a qualche rapido cenno che partitamente si riferisca al siciliano e a'dialetti meridionali di terraferma.

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a. Siciliano. Il vocalismo siciliano è nitidamente etimologico. Temprato diversamente dal toscano, non ne è men nobile, e entrambi si riscontrano per mirabili guise. La varietà dominante ignora i dittonghi dell'è e dell'o, come vedemmo che avvenga in Sardegna (B, 2), e qui pure appajono intatti l' e l'ú; ma l'é e l'ó si riflettono in giusta armonia per i e per u; e, con simmetria non meno giusta, anche l'e e l'o disaccentati si ripercuotono per i e per u. Esempj: téni tiene, nóvu nuovo; pilu pelo, jugu giogo; crídiri credere, sira sera, vina vena, suli il sole, ura ora. L'é e l'ó di posizione si riflettono per e ed o (vermi verme, nuvéḍḍu novello; morti la morte, cornu), e normalmente così rispondono all'e e all'o di pronunzia aperta de' riflessi toscani. Che se talvolta il siciliano sembra fare eccezione (stiḍḍa stella, vínniri vendere, furma, ecc.), ecco di solito ch'egli concorda anche in questo col toscano, nel quale riavremo l'apparente eccezione della vocale chiusa anzichè aperta (stella, vendere, forma, ecc., Arch. II 146).

Per la evoluzione delle consonanti, sia ancora ricordato il passar di LJ in ghj (p. e. figghiu figlio), e di LL in dḍ (p. e. gaḍḍu gallo).

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b. Dialetti della terraferma napolitana. Il calabrese (e s'intende più specialmente il gruppo vernacolare delle due Calabrie Ulteriori) può addirittura considerarsi come una continuazione del tipo siciliano. Ecco alcuni esempj critici: core cuore, petra, fimmina femina, vuci voce, onuri onore, figghiu figlio, spaḍdi spalle, trizza treccia (si sottrae qui tuttavolta all'assimilazione, che è comune al siciliano e al napolitano in genere, il D del nesso ND; p. e. quandu, ćangendu piangendo). Lo stesso h per š= FJ, come in huri (sicil. šuri fiore), che è caratteristico del calabrese, ha i suoi prodromi nell'isola; v. Arch. II 456. Lungo la marina dell'estremo lembo d'Italia, sorpassate che s'abbiano le interruzioni causate dal tipo basilisco (cioè di Basilicata), il vocalismo siculo ci ritorna nell' o trantino, massime alla marina del Capo di Leuca. Pur nella varietà leccese dell'otrantino è fermo ancora in molto gran parte codesto vocalismo che diciamo siculo, come può vedersi dai seguenti esempj (MOROSI, Arch. IV): sira sera,

leitu oliveto; pilu; ura ora, dulure. Ma anche il fenomeno siculo di LJ in ghj (figghiu figlio, ecc.) è ben fermo in Terra d'Otranto e pure in Terra di Bari, e anche s'estende per la Capitanata e la Basilicata (cfr. D'OVIDIO, Arch. IV 159-60). Non meno fermo è in Terra d'Otranto l'altro fenomeno insulare di LL in dḍ (ḍr), il quale pur s'estende molto largamente per le terre napolitane che sono al versante orientale degli Apennini, mandando propaggini sin nell'Abruzzo. Ma in terra d'Otranto già c'incontriamo nei dittonghi dell'è e dell'o, così fuor di posizione come in posizione, il cui sviluppo o la cui permanenza si governa secondo la qualità della vocal disaccentata finale, come generalmente avviene ne' vernacoli del Mezzodì. S'aggiunge che la determinazione del dittongo dell' o, e perciò pur dell' ó di posizione, qui sia ue. Ecco esempj caratteristici, sempre della varietà leccese: core, pl. cueri; metu | mieti mete, mieto mieti miete (lat. mětere); sentu sienti sente; olu uéli ola volo voli vola, mordu muerdi morde. Quest' ue ricorda la riduzione fondamentale che è ne'territorj gallici (a tacer dello spagnuolo), e si protende per la Terra di Bari, dove s'imbatte in altri dittonghi, che anch'essi ricordano curiosamente le terre 'galliche' (p. e. a Bitonto, allato a lueche luogo, suenne sonno, c'è l'oi e l'ai da i od e di fase anteriore: većoinę vicino, e l'au da o (9) di fase anteriore: anaure onore, oltre un turbamento dittongale dell' á). Ivi occorre anche l'A' in e più o meno schietta (così a Cisternino: scunsulête sconsolata; a Canosa di Puglia: arruête ararrivata, n-ghépe 'in capa', cioè 'in capo '); e si aggiunge il continuo affievolimento o dileguo delle vocali disaccentate, non solo finali, ma anche interne (così a Bitonto: vendett, spranz). Con un tipo consimile s'entra in Capitanata (Cerignola: faćâive faceva, afféise offese; sfaziâune soddisfazione; n'-ghêipe in capo, 'nźulteite insultata, arraggète arrabbiato); e par d'essere come agli avamposti dell' abruzzese, al quale s'arriva attraverso al Molise, contrada poco popolata anche oggidì, e meno ancora ne' secoli andati, le cui prevalenti parlate ora interrompono, in qualche guisa, l'andamento istoriale delle parlate del versante adriatico, presentando come un'irruzione del tipo dell' altro versante apenninico. Ma nell'alto Molise, a Agnone, ecco nuovamente i legittimi precursori de'vernacoli abruzzesi (fatoica fatica, perdoiva

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