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siasmo si grave insieme e si puerile, merita bene d'essere studiato; e l'interesse, che ancor ispira il problema della sua esistenza, farà sembrar più tollerabile l'aridezza d'alcuni ragguagli filologici, che, trattandolo, non potrò evitare.

Di che modo egli tratti questo problema, il quale come ciascuno comprende dal brano d'esordio qui riportato, forma il principale argomento della sesta lezione, jo non potrei qui indicarlo senza cadere in quella aridità, che Villemain ha saputo schivare infiorando or d' aneddoti or d'altro la sua discussione. Com'ei lo sciolga posso far. lo comprendere, dicendo che dal mezzo della lezione in poi egli chiama sempre il bardo scozzese MacphersonOssian.

Alla discussione sull'esistenza del poeta ei fa succedere un giudizio critico sul merito delle poesie che gli sono attribuite; e questo giudizio, se non abbonda di cose nuove, abbonda al solito di cose ingegnose. La fine di tutto il discorso, ridotta a brevi termini, è questa. Io non veggo nelle poesie d'Ossian che uno sforzo di ringiovanimento letterario per mezzo dell'imitazione d'antiche forme, che una di quelle contraffazioni di pensiero e di stile, che son comuni alle invecchiate letterature. Tutto ciò che avvi di più caratteristico e di più originale in queste poesie, un non so che di malinconico, di fantastico, d'indeterminato, di sentimentale, di religioso benchè indipen dentemente dal culto, ec. ec., tutto appartiene al decimottavo secolo. Ciò assai più che la lor vantata semplicità, la qual peraltro dovea piacere come un ritorno alla natura, spiega la lor fortuna al tempo in cui comparvero, e in quello che lor succedette. Esse convenivano mirabilmente alla fine del decimottavo secolo, esse eran fatte più che ogn'altra poesia per lusingare gli animi affaticati dalla riflessio ne e dal dolore. Che conchiudere da tutto ciò? La necessità che la letteratura in ogni suo tentativo sia nazionale e contemporanea. Anche quando, per risvegliare il gusto addormentato, essa ricorre a finzioni straniere o remote, non ottiene verun effetto se non trae partito da idee e da sentimenti attuali. Chi non si associa a questi

sentimenti e a queste idee, chi non è uomo del proprio tempo, non riesce a nulla co' suoi scritti, non è vero

scrittore.

M.

DUBITAZIONI E CONGHIETTURE INTORNO TOMBUCTU.

Si quid novisti rectius... Horat.

Nel momento che colla massima impazienza stiamo aspettando che dalla Società di Geografia in Parigi si pubblichi la Relazione del viaggio, e soggiorno fatti a Tombuctù dal signor cav. Caillé (1), non sarà discaro ai leggitori dell' Antologia di trovare qui alcune riflessioni durante un lungo soggiorno in Marocco, ed in Tripoli di Berberia, a me suggerite dalla comparazione fatta delle varie relazioni infino ad ora somministrateci, concernenti quel celebre, e misterioso emporio (2).

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Ma prima di andare innanzi, sarà pregio dell'opera di determinare in questo luogo la positiva ortografia del nome di Tombuctù. Alcuni moderni scrittori hanno preteso, che la vera pronunzia di cotesto nome era quella di Tin-Buctù, imperciocchè, nel linguaggio del paese, la voce Tin significando, a detta di loro, abitazione o domicilio, e quella di Buktù sendo nome proprio di donna, è parso loro credibile, che il nome intero altra cosa non volesse dire se non abitazione di Buctù, donna o santa, o altrimenti celebre, intorno alla di cui residenza fosse appoco appoco stata edificata la città di cui si parla. Tuttociò può essere e possibile, e verissimo; ma non ostante le asserzioni di quei signori, non mi è mai sortito di abbattermi in una sola

(1) V. Ant. N.o 96, Decembre 1828.

(2) Benchè il fondo di queste riflessioni sia stato disteso in lingua fran cese parecchi anni sono, si è creduto giovare ai progressi dell' etnografia col pubblicarle ora, nel tempo medesimo che si dà nell' Antologia la traduzione italiana del rapporto fatto alla società parigina di geografia, dal comitato di lei spezialmente incaricato di render conto del viaggio del signor cav. Augusto Caillé ; acciocchè si possano a suo tempo confrontare collo stato esatto delle cognizioni che finqui si aveano di Tombuctà i lumi che sta per ispargere su quel ramo interessante della geografia, la relazione circostanziata ed autentica delle scoperte fatte ultimamente.

persona, oʼmora od araba, abitante dell'interno dell'Affrica, la quale abbia confermato coteste asserzioni, che debbo così credere per lo meno arrischiate. Checchenesia, è cosa certa che fino dal quattordicesimo secolo gli arabi pronunziavano quel nome Tun-buk-tù, posciacchè Mohhammed Jbnu Batuta, celebre viaggiatore affricano di quell'epoca, dice positivamente che la prima sillaba di quel nome dovea scriversi con un Tà mosso da un dhomma vocale araba corrispondente all'u toscano e segui tato d'un Nun quiescente, ciò che appresenta il suono figurato di Tun, e non quello di Tin. Per la qual cosa andremo innanzi, dicendo e scrivendo Tun-buctù, o Tonbuctù, o veramente Tombuctù, come più conforme all' ortografia italiana, ove la consonante b non consente mai avanti di sè la n in mezzo della parola ed in sillaba diversa.

Fra le relazioni che abbiamo infino ad ora di Tombuctù, due si destinguono sovra le altre; cioè, una di Sidi Hhamed, negoziante arabo della tribù di Beni-es-Seba'a (figli del lione) del Sus-el-acsà, region montuosa del Gran Deserto limitrofa dell'Impero di Marocco, la qual relazione fu compilata, e pubblicata dal capitano James Riley, degli Stati Uniti dell' America settentrionale; e l'altra d'un certo Beniamino Rose, marinaio pure americano, il quale sotto il pseudonimo di Roberto Adums fu presentato al pubblico, dodici anni sono, come autore di una storia del suo naufragio sulla spiaggia occidentale del Sahhara" non che della sua schiavitù di tre anni fra gli arabi colà vagabondi e della sua residenza di sei mesi nella città di Tombuctù. Queste due relazioni che, l'una e l'altra, sembrano doversi, con qualche ragione, collocare allato a quelle dei Psalmanasar, e dei Damberger, contengono ciò nondimeno in sè alcuni fatti d'importanza, i quali combinati con ciò che prima sapevamo, ed in appresso è giunto a nostra cognizione, rispetto a quella celebre città, possono almeno servirci a situare qua, e là, sul cammino degli etnografi, alcune scorte, o chiamate acconcie a guidarli nel retto cammino. Sarà perciò da queste due relazioni che dedurrò successivamente la materia delle mie dubitazioni e conghietture.

Sidi Hhamed dice, che la città di Tombuctù è cinque volte più grande di Suira, città dell' Impero di Marocco, in Europa conosciuta sotto il nome di Mogodore, e che la sua popolazione è sei volte maggiore. Giusta il computo del capitano Riley avrebbe dunque, perlomeno, dugentosedicimila alitanti. Ma questi computi sono esagerati, non meno per Suira che per Tombuctù. Lo

stesso signor Grey Jackson che fu cotanto liberale negli altri suoi censi della popolazione di Marocco, conta solamente dieci mila abitanti in Suira; ma questo, da un altra parte, è troppo poco. Da tutto quello che, durante un soggiorno di sei anni in quell'Impero, io ho potuto riconoscere, anche dietro le più accurate informazioni di cristiani per lunghi anni stabiliti in Mogodore, mi credo autorizzato di fissare la sua popolazione in sedici, o tutto al più in diciassette mila anime. Sicchè, ammettendo con Sidi Hhamed, che Tombuctù ne abbia almeno sei volte altrettante, non potremo valutare la sua popolazione a meno di cento mila anime, senza però includervi le sedici o diciottomila, che vivono nel Millah, o sia sobborgo dei Mauri. Ma come concilieremo questa numerosa popolazione coi ragguagli trasmessi nel 1798 all'Istituto reale di Francia dal fu Broussonnet, che ottenuti li avea da parecchi Mauri, i quali erano più volte stati a Tombuctù e che gli affermarono quella città non essere punto più grande di quella di Tetuan nell'Impero di Marocco, e non avere, al più, se non che dieci mila abitanti. E qui non posso astenermi dal ripetere una immagine curiosissima di Tombuctù, nell'anno 1792 al mio rispettabile e dottissimo amico il sig. cav. Matteo de Lesseps, in cggi console generale di Francia in Tunisi, data da alcuni Mauri, che aveano soggiornato un gran tempo in Tombuctù, ed in altre parti della Nigrizia. Per dipingere, d'un sol tratto, e col modo figurativo degli arabi, l' irregolarità delle abitazioni di Tombuctù, si servirono essi di questa energica espressione: "Pigliate in mano un mucchio di capanne; gettatele in aria lasciatele ricascar sulla terra, e vedrete Tombuctù

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Tutte le antiche relazioni di questa città concorrevano nel dire, che almeno dall'anno 1800. in poi il regno, di cui ella è la dominante, dipendeva dal re di Bambara, che risiedeva a Ginnie, avvegnachè Sego fosse la città principale del suo regno. Aggiugnevano che questo principe nominava il capo ed i consiglieri del governo di Tombuctù. Ma Sidi Hhamed parla di un principe indipendente, il quale parea governare il suo popolo più da padre amoroso che da re assoluto. E debbo convenire, che questa sua asserzione acquista un nuovo grado di forza dal diario d'Isacco, compagno dello sventurato Mungo Park, ove dice che i sudditi del re di Tombuctù aveano nel 1810 assaltato, e messo a bottino due carovane, che venivano dal Bambara. La relazione pubblicata col nome finto di Roberto Adams parla egualmente d' una guerra fra quei due reami, ciò che sembra dimostrare che non erano già soggetti ad un solo, e medesimo sovrano.

T. XXXIII. Gennaio.

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Ma ciò che nella relazione di Sidi Hhamed è veramente straordinario, si è che in tutto quello ch'ei racconta di Tombuctù non havvi una sola parola della picciola città di Cabra, posta in riva al fiume Gioliba, o sia Nilo dei Negri, dove da molti secoli servì, é serve tuttora di porto, e di luogo di conserva pel commercio della capitale. Tutti gli antichi ragguagli s'accordano a collocare Tombuctù quattro leghe al settentrione della fiumana; ma se dobbiamo credere a Sidi Hhamed, questa distanza sarebbe molto minore, mentre dice, che i Mauri potevano, nello spazio di un ora, recarsi dalla capitale al fiume, onde quivi abbeverare i loro cammelli (3). A detta però di altre informazioni, le quali confermano le più antiche, Tombuctù sarebbe situata sopra un altro fiume, che scende dalla parte del maestro, e cade nel Gioliba. Sidi Hhamed medesimo assicura, nel suo primo viaggio, che un così fatto fiume bagnava le mura di Tombuctù, dalla parte di ponente; ma che trovavasi a secco allora ch' ei la vide. La sola parola ch' egli dice di una città posta sulla fiumana, è quando, nell'atto di partire per Wassanar, egli racconta, che la carovana fermossi, dopo due ore di cammino, presso un povero villaggio fabbricato di canne ricoperte di fanghiglia, e situato, dice egli, sul medesimo fiume che già disse aver veduto a Wabilt, ed al quale dà il nome di Zolibib, voce corrotta visibilmente da quelle di Gioliba, Giuldbi o Gulbi, che nell'idioma del paese, e di altre parti della Negrizia hanno lo stesso significato dell' araba voce bàhhar, cioè una grande massa di acqua. Ma nè la descrizione ch' egli dà di cotesto villaggio, nè la sua distanza della capitale, non hanno la menoma relazione con ciò che di già sapevamo di Cabra.

In altro luogo Sidi Hhamed assicura, che la città di Tombuctù è cinta di forti muraglie, costrutte di pietre assodate con una specie di calcestruzzo d'argilla. La qual cosa è diametralmente opposta a tuttociò che sapevamo per lo innanzi, e soprattutto a ciò che dice il Peregrino Abd-es-Salàm Sciabîni nel compendio dei suoi viaggi pubblicati dal sig. Jackson, ed a ciò che quest'ultimo assicura d'aver inteso egli medesimo, a Mogodore, da tutti i mercadanti mauri, che fatto aveano a Tombuctù una residenza di parecchi anni. Concorrevano tutti nell'asseverare, che la città non avea mura di sorta alcuna, ma

(3) Questa conghiettura pare che trovisi verificata dalle osservazioni del sig. cav. Cail'é, che determina in cinque miglia solamente la distanza da Tombuctù fino alle sponde della fiumana.

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